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Il racconto

MONDIAL HOTEL

GIOVANNA DE LUCA - 14/04/2017

8875211 - illuminated hotel sign against black backgroundLa strada stretta proveniente dal centro storico era lastricata da larghe pietre rossastre, separate le une dalle altre da ampie fessure.

Era piovuto, ed ora luccicavano al riflesso dei lampioni, nella sera già buia. Egli ascoltava il rumore dei suoi passi nel deserto intorno, pensava che avrebbe potuto trovarsi sul set di un film giallo, né la vicenda di cui era protagonista se ne scostava molto.

Al fondo della strada un’insegna al neon, rossa, con la “t”che non si illuminava più: Mondial Hotel.

Rapidamente lo raggiunse.

Tre gradini, una passatoia sporca fermata da asticciole di metallo. A un lato dell’ingresso un vaso grande, con una specie di palma, forse finta. Oltre l’angolo dell’edificio si intravedevano i bidoni della spazzatura. Spinse la porta a vetri, su cui erano ben evidenti le due stelle della categoria, ed entrò. Aleggiava odore di chiuso, di vecchi velluti. Il portiere di notte, seduto dietro il bancone, con un giornale in mano, non alzò subito gli occhi. Quando lo fece, egli chiese:

“Avete un stanza libera per una notte?”

“Quante ne vuole”, rispose l’uomo, che indossava una giacca stropicciata bordata ai polsi e al collo da una striscia rossa. “Come la vuole? Verso il giardino?”

“Non importa. Una stanza”.

“Bene, favorisca i documenti”.

Allungandoli, volse lo sguardo alla scala, sulla destra: una stinta passatoia la ricopriva, resa più sgradevole dalla cattiva illuminazione.

“Secondo piano, la 23”, disse il portiere.

Salì. Il luogo, l’ora, l’immenso problema che lo attanagliava: salì lentamente, ricurvo. Percorso il corridoio, dove l’odore di chiuso era opprimente, entrò nella stanza. Buttò il poco bagaglio sul letto, spalancò la finestra. Gli aveva dato una camera sul retro; ebbe davanti a sé una fitta, compatta parete di ligustro, su cui, come su uno schermo, strisciavano le luci dei fari delle automobili, che a sinistra percorrevano la strada principale. Stette così per un po': l’aria, ripulita dalla pioggia del pomeriggio, aveva un fresco sentore.

Sicuro, sapeva che sarebbe successo. Tre giorni prima era scaduto il termine entro cui doveva restituire la somma stabilita.

“O lei mi dà quel che mi deve con gli interessi fino all’ultimo centesimo”, aveva detto l’usuraio, “o qui si mette male. Vuole un altro prestito? Glielo posso dare. Ma l’interesse è doppio, e il termine un mese…”

Erano nell’ufficio di copertura di quell’uomo, un bell’ufficio: legno e pelle, quadri alle pareti, foto incorniciate d’argento sulla scrivania. “Un mese”, ripeté. ”Se no”, aveva continuato alzando gli occhi dalla matita che faceva roteare tra le dita, “lei capisce che devo agire…Capisce?”

Capiva. E intanto guardava l’anello di lui al dito mignolo, il pullover di cashmere, il viso fresco ben rasato.

E vedeva il suo sguardo: arrogante,minaccioso.

Poiché non rispondeva, l’usuraio concluse: “Bene, le do ancora tre giorni. Poi mi dovrà dire cosa ha deciso. E io non scherzo”.

Ora, seduto sul bordo del letto dello squallido albergo, riandava alle ultime ventiquattr’ore. Il giorno prima, annaspando nello sgomento, aveva pensato a tutte le possibili soluzioni. A chi rivolgersi per trovare il denaro dovuto? Nell’ormai lungo percorso della sua dipendenza dall’usuraio aveva bruciato tutte le strade: nessuno gli faceva più credito, si era procurato debiti per chiuderne altri, aveva venduto il vendibile, ed ora lui e la sua famiglia vivevano di economie incredibili. Come aveva potuto ridursi così? Riandava ai tempi in cui la sua piccola azienda era fiorente, ed egli si sentiva un uomo capace, in gamba. Forse troppo, forse si era sovrastimato: e aveva fatto passi azzardati, rischiato in ampliamenti che, subentrando la crisi, si erano rivelati nefasti. Così era cominciata la discesa, e un gradino aveva tirato l’altro, fino al ricorso agli usurai, fino al disastro.

Oggi era venuto in questa città confidando in una vecchia zia, che secondo lui avrebbe potuto aiutarlo. Aveva passato con lei la giornata, riempiendola di attenzioni, raccontandole dei suoi figli, di sua moglie: in tutti i modi aveva cercato di coinvolgerla in una partecipazione affettiva. Ma gli era apparsa svanita. In più, la donna che viveva con lei gli aveva fatto capire che non aveva grandi risparmi, che era fondamentale l’ “accompagnamento”.

Perciò, caduta anche quell’ultima speranza, ora non sapeva più cosa fare.

Quasi meccanicamente trasse dalla valigetta l’oggetto, lo posò sul comodino. Aveva un regolare porto d’armi per la pistola, di cui si era munito quando aveva cominciato ad avvalersi degli usurai. Tenne la mano su di essa: che frescura nel palmo! Un ristoro!

Un vortice, un buco come un vortice. Gola asciutta. Tachicardia. Più niente da fare, non c’era più niente da fare…Morire, meglio morire…oppure… oppure…

L’usuraio si poteva denunciare.

A ciò non aveva mai concretamente pensato, conscio delle crudeli ritorsioni cui sarebbe andato incontro, e la famiglia pure. Ora rifletteva: morto suicida, sarebbe finito sui giornali. Il suo fallimento, come imprenditore e come uomo, fissato per sempre, e irreversibile. I figli e la moglie non avrebbero conservato di lui un’orgogliosa memoria.

E se avesse denunciato l’usuraio certo tutti lo avrebbero considerato coraggioso, ma non si sarebbero trovati al posto suo a temere imboscate, violenze, danneggiamenti d’ogni tipo. Certo le forze dell’ordine lo avrebbero aiutato e protetto, ma egli ben sapeva quanto astute e sottili fossero le vie del male! Per non parlare della fatica e dei nuovi sacrifici necessari a rimettere in piedi una qualsivoglia attività, così senza soldi, con due figli appena adolescenti : ancora un calvario.

No, meglio farla finita. Sua moglie era una vera donna: le donne sono più forti, si disse,ce l’avrebbe fatta.

E se invece di morire da fallito avesse tentato un riscatto? Perché non provarci?

Ora, disteso sul letto, preda di una stanchezza mortale, si dibatteva tra l’una e l’altra risoluzione. Mentre lo sfinimento lo portava al sonno, egli sentì che solo vivendo un nuovo calvario avrebbe potuto sapere se fosse possibile per lui una resurrezione.

Un tintinnio di collane aprì la porta d’ingresso dell’hotel. Bisticciando con il trolley, sbuffando, entrò su stivali vertiginosi una giovane bionda: attillata, profumata, elegante. Il portiere la guardò senza scomporsi mentre avanzava quasi gridando: “Mammamia che fatica! Avete una stanza libera per una notte?”.

“Come la vuole? Singola?”, disse dubitoso.

“ Non importa. Una stanza”.

“ La 27”, e si avviò ad indicarle l’ascensore.

“Oh, salgo a piedi, mi basta appoggiare la valigia!”.

 Il portiere la guardò salire: fosse chi fosse, a lui importava solo non avere guai.

La camera 27 aveva la serratura difettosa, era soffocante e con un bagno malandato. La giovane mormorò qualcosa, spinse da una parte il trolley, spalancò la finestra: sulla strada sottostante le automobili andavano via via diradandosi. Respirò profondamente la fresca aria notturna, ripetutamente. Poi si volse allo specchio, si passò le dita sotto gli occhi stanchi, osservò l’ombra scura sulla guancia, si buttò sul letto.

Così era fuggita. Solo qualche mese prima non avrebbe mai pensato di fare una cosa simile. Ora sentiva ancora il dolore alla spalla procuratole dalla caduta a terra, quando lo schiaffo era stato tanto violento da farle perdere l’equilibrio.

Distesa sopra le coperte, riandava ai ricordi.

Anni prima, nella tabaccheria in paese, venivano in tanti, giovani e vecchi. Parlavano con suo padre,e guardavano lei: snella, bionda, sempre a ridere su quelle gambe lunghe. Suo padre, vedovo, l’aveva viziata, pur non essendo ricco. E quando un giorno un giovanotto di bell’aspetto si era stagliato sulla porta, con l’aria sicura del vincitore, le era sembrato il principe arrivato a cavallo. I ragazzi le erano sempre piaciuti, anzi in paese aveva fama di averne avuto qualcuno di troppo, ma lui non ci aveva fatto caso e se l’era sposata.

Erano andati a vivere nella città dove egli aveva un’impresa. Avviata, con parecchi dipendenti. Viaggiava spesso, ma non la faceva mai sentire sola: tornava con regali, la colmava di attenzioni, non dimenticava una ricorrenza. Avevano una villa con piscina e un bel parco. Insomma tutto quello che sempre aveva sognato, dietro il banco della tabaccheria, lo aveva avuto. Era felice.

Poi un giorno egli tornò a casa cupo, e fu così per giorni. Alle sue domande rispondeva evasivamente, finché una sera, sedendole accanto sul divano, le disse:

“Sai, gli affari non vanno più tanto bene”.

“ Cosa?”.

“Non reggo la concorrenza come prima, lo stabilimento nuovo è costato troppo, le tasse mi ammazzano”, e le elencò una serie di problemi  incomprensibili.

“Stiamo diventando poveri?”, chiese lei con aria sgomenta.

“No, non per ora. Ma…occorre premunirsi, avere qualche sponda…”.

Lei non capì, continuava a guardarlo interrogativa.

“Avrei bisogno che qualcuno mi aiutasse”.

“Ma certo, certo! Potrei fare qualcosa anch’io, la modella per esempio! Ricordi che conosco quella stilista, e anche quel pubblicitario…”.

“Ma no, vedi, mi serve qualcuno che mi dia denaro, capisci? Anzi, l’avrei anche trovato…”

“Ma bene allora! Chi è?”.

 Le si avvicinò, l’avvolse più intimamente e con voce bassa e suadente continuò:

“Ricordi quel signore non più giovane che conoscemmo in Sardegna l’anno scorso? Che ci offrì una cena e poi incontrammo a carnevale…Ma sì, quell’uomo elegante, con un’ automobile che tanto ti piacque…”.

“ Sì, mi pare…Quello brutto?”.

“ Ma no, non brutto, solo un po’ maturo. Siamo diventati amici, si è interessato ai miei problemi, e sarebbe disposto ad aiutarmi”.

“Ma allora siamo a posto, non devi preoccuparti più!”.

“No…certo. Però lui mi aiuterebbe se …se tu…”, e la strinse più forte, “se tu fossi carina con lui”.

Subito non capì. Egli riprese: “Sto dicendo che se vuoi continuare a vivere come viviamo, se vuoi gli abiti firmati e le vacanze di lusso, se vuoi che tuo marito, io, tuo marito, non sia trascinato al fallimento e finisca alla gogna, e magari anche inquisito per operazioni illegali, beh, tu devi…”.

Si era staccato da lei, la sua voce era divenuta tagliente, l’espressione crudele.

Aveva accettato. Per amore di lui. E della vita che non voleva perdere.

Allora si era aperto un capitolo della sua esistenza fatto di lusso e corruzione, in cui era vittima consenziente. Del marito aveva conosciuto un altro volto: tanto grande era il suo amore che c’era posto per altre, c’era sempre stato. E più affondava, più si sentiva bisognosa di appoggiarsi a chi la mandava a fondo.

Ad un movimento del fianco, sul letto, avvertì una presenza, una impalpabile presenza nel grembo: come una sommessa voce che voleva intervenire nella rassegna dei ricordi. Non diceva: “Tienimi”, non invocava. Era lì e basta, in attesa della sua sorte.

Quando il marito aveva saputo che era incinta di lui o dell’altro, che aveva tralasciato per qualche tempo di prendere la pillola, le aveva detto che doveva liberarsi del frutto di quella stupida negligenza. E che lo facesse da sola, bastava andare all’ospedale, era grande abbastanza. Ma quando lei aveva avuto un moto di protesta, pensandosi sola in quella circostanza, egli l’aveva inteso come un rifiuto ad abortire e, con un ceffone terribile, l’aveva fatta cadere. Allora qualcosa le era scattato dentro. Approfittando di una sua assenza, aveva raccolto quattro indumenti, preso il denaro che aveva in casa ed era scappata. In un’altra città, poco lontana, ma dove nessuno avrebbe pensato di cercarla.

Certo che avrebbe abortito, mica poteva farcela da sola. Quali altre possibilità aveva? Il denaro lasciatole dal padre non era molto, non possedeva titoli di studio oltre l’obbligo, e comunque avrebbe dovuto trovare una casa, un lavoro. Suo marito l’avrebbe cercata? Ma conosceva altre ragazze disponibili…

Si stupiva di se stessa: da dove le veniva tanta determinazione a non volere più vivere come aveva fatto fino ad allora? Poteva fare la commessa, essere assunta in un call center, o qualcosa del genere. Oppure, meglio, la modella, suo vecchio sogno, o cercare in televisione, le conoscenze non le mancavano. La sua mente era un caleidoscopio di possibilità, di ipotesi cotraddittorie.

Seduta sul letto, vide il suo futuro con un bambino. E quale futuro, poi? La gente ci mette poco a capire, dovunque ci si trovi, e non fa sconti: anche se i tempi erano cambiati, l’ipocrisia sarebbe stata sempre la stessa. No, no, doveva abortire. Si sarebbe separata, poi avrebbe divorziato. E cominciato una nuova vita. Libera. Padrona delle sue azioni. Una nuova vita!

Sentì di nuovo quel fastidio in grembo. “Suggestioni”, si disse: era troppo presto per percepirlo, era in tempo per liberarsene.

Si spogliò, si infilò sotto le coperte. Era esausta. Ebbe paura: poteva essere certa che la nuova vita sarebbe stata come la sognava? Aveva sperimentato la delusione dopo l’illusione…e come! Non sapeva più che fare: ogni scelta comportava un’assunzione di responsabilità, cui non era abituata. Si sentiva sola, ed era terribile. E mentre il sonno finalmente la portava via, le parve udire levarsi dal proprio corpo una vocina, sottile, che le diceva di non disperare, che, insieme, sarebbero anche potuti risorgere…

Il mattino arrivò, e il portiere di notte del Mondial Hotel cedette il posto all’impiegata che gli subentrava.

Uscì, girò l’angolo dell’edificio, prese la bicicletta che lasciava un po’ nascosta sul retro. Era stanco, più che altro stufo. Ora sarebbe andato a casa, avrebbe mangiato qualcosa e poi dormito. Quindi si sarebbe fiondato al computer, a giocare. Infine qualche spesa, poi una cena, e di nuovo all’hotel, ad accogliere le scarse persone che arrivavano, di cui non gli importava niente.

Sì, perché lui detestava il prossimo, qualsiasi prossimo. Di modestissima famiglia, figlio unico, aveva visto il padre andarsene per i fatti suoi quando era bambino, e la madre incupirsi e invecchiare anzitempo facendo la domestica a ore. Aveva un carattere chiuso, a scuola era andato malissimo. Era stato sfortunato in tutto: insomma si poteva dire nato sotto una cattiva stella.

Dopo vari lavori da tempo aveva trovato questo, di portiere di notte, che gli consentiva una discreta sopravvivenza e non lo metteva nella necessità di rapportarsi con qualcuno oltre poche parole. Pensava infatti che esistesse un mondo con il quale non aveva niente in comune: quello delle persone abbienti, colte, capaci di vivere. E poi lui: un altro mondo. Per usare una parola del suo linguaggio: “sfigato”. Perciò detestava il prossimo.

Mentre montava in bicicletta, al marciapiede prospiciente l’hotel, lo sguardo gli andò in alto: la luna, bianca nel cielo chiaro del mattino, lo guardava. Era piena, trasparente, ed immensa. Ancora luminosa nonostante fosse sorto il sole, gareggiava con il cielo sereno, ripulito dalla pioggia del giorno prima. L’aria appena frizzante portava un nuovo profumo, di primavera. Si ricordò della data, e che era la settimana di Pasqua.

Colpito dalla visione, si rese conto che non guardava mai la luna, chiuso in quel buco dove lavorava. Caspita, com’era bella, anche così, di giorno! E sarebbe stato, a quanto pareva, un giorno di sole. Non ebbe più voglia di andare a casa. Perché non fare un giro sul lungolago?

Così fece, mosso da uno stato d’animo mai provato, desideroso di nuovi respiri, di luce, di verde, d’azzurro.

Rapidamente arrivò al lago. Non c’era che poca gente: qualche coppia anziana, usa alla passeggiata mattutina, qualche mamma con bambino, un signore con dei cani, due studenti innamorati che probabilmente avevano marinato la scuola per stare insieme.

Pedalò lentamente, guardando la grande montagna che tutto cingeva abbracciandolo. Guardò il lago e i suoi cigni, e la gente, e le piante, e il cielo di nuovo. La natura era lì, e non faceva differenza se lui era uno “sfigato”: il suo respiro non era diverso da quello di un altro, né era per lui meno azzurro il cielo, meno bianca la montagna. Appoggiò la bicicletta ad un albero. Si sedette su una panchina vuota appoggiando le braccia aperte sullo schienale: la grande catena di fronte a lui, con il massiccio in mezzo e le cime innevate ai lati, gli era speculare.

Stette a lungo così, mentre il sole saliva, abbandonandosi al piacere di sentire sul suo corpo un calore carezzevole, ascoltando ad occhi chiusi l’alternarsi delle voci intorno. Quanto buio nella sua vita di lavoro, e quanto dentro di lui: le notti all’hotel gli erano entrate nell’anima, lo stavano spegnendo a poco a poco.

Quando riprese la bicicletta per tornare, era giorno pieno: sentì, con una nuova speranza, che anche nella sua vita avrebbe potuto esserci una resurrezione.

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