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Editoriale

FISCAL DREAM

GIANFRANCO FABI - 05/05/2017

curvaTra le tante promesse che Donald Trump ha tentato di mettere in pratica, nei suoi primi cento giorni di presidenza, particolarmente attesa è quella della drastica riduzione della pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese. Una promessa  ambiziosa, sicuramente popolare, ma dai risultati incerti e problematici.

Trump vorrebbe seguire le orme di Ronald Reagan che nel 1980 tagliò le imposte e riuscì a rilanciare una crescita economica particolarmente significativa, una crescita che alla fine fece aumentare le stesse entrate fiscali anche se non nella misura che il presidente avrebbe voluto.

Un’operazione di questo tipo prende spunto da quella che viene chiamata “curva di Laffer” dal nome dell’economista (Arthur Betz Laffer appunto) che durante un pranzo con Reagan, allora candidato presidente, disegnò su di un tovagliolo di carta un grafico in cui si dimostrava che oltre un certo livello un aumento delle imposte faceva diminuire il gettito. E viceversa. Cioè diminuendo le imposte si potevano creare le condizioni per far crescere l’attività economica e quindi a sua volta il gettito fiscale.

In pratica lasciando più soldi alle imprese si possono far crescere gli investimenti così come lasciando più soldi alle famiglie si possono fare crescere i consumi.

Con Reagan questa manovra ha funzionato. Anche grazie tuttavia ad alcune importanti condizioni di partenza: una pressione fiscale particolarmente elevata, l’esistenza di un potenziale produttivo non utilizzato, una situazione dei conti pubblici tale da permettere una momentanea espansione del debito senza contraccolpi.

Queste condizioni esistono solo in parte negli attuali Stati Uniti di Trump perché già ora l’economia marcia a buon ritmo, la disoccupazione non è particolarmente elevata mentre il debito pubblico non è mai stato così alto.

Quindi per molti aspetti la decisione del neo-presidente appare dettata più dalla ricerca di recuperare un consenso che resta particolarmente basso che non dall’effettiva possibilità di far crescere ancora più velocemente l’economia.

Se guardiamo all’Italia la situazione è ancora più complessa. La stagnazione dell’economia italiana è infatti legata a tre fattori: l’incapacità di fare crescere la produttività del lavoro, la diminuzione degli investimenti pubblici, la frenata demografica con la diminuzione delle nascite e la crescita delle fasce di età più avanzate.  In queste condizioni una riduzione della pressione fiscale dovrebbe essere particolarmente rilevante per avere effetti positivi, ma se fosse particolarmente rilevante creerebbe contraccolpi negativi sui conti pubblici riducendo ancora di più la capacità dello Stato di investire.

Può tuttavia essere certamente utile una politica di riduzione delle imposte, soprattutto per il ceto medio dato che i poveri veri o falsi che siano non pagano. Così come può essere ancora più utile una vera politica di contrasto alla povertà garantendo risorse alle famiglie che hanno un reddito ai limiti della sussistenza.

Il vero problema italiano è che una politica economica basata sulle riduzioni delle imposte (che sono oggettivamente tanto alte da costituire un freno alla crescita) è possibile solo recuperando spazi di manovra, in pratica tagliando in maniera significativa la spesa pubblica.

Si potrebbe tuttavia cominciare – e non sarebbe un fiscal dream, un sogno fiscale, ma una politica concretamente possibile – con qualche misura finalizzata ad aiutare le famiglie, aumentando per esempio le attuali simboliche detrazioni per i figli e i familiari a carico. Più che una riduzione fiscale generalizzata, ma limitata (che poi rischia di essere ininfluente come ha dimostrato l’esperienza degli 80 euro dati a tutti), sarebbe sicuramente più utile una politica che aiutasse quelle simpatiche eccezioni che sono le famiglie numerose.

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