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Zic & Zac

DAZI E FRONTIERE

MARCO ZACCHERA - 09/06/2017

trumpParliamoci chiaro: troppe volte ciascuno di noi ha dei preconcetti e uno di quelli più in voga è che il presidente americano Trump sia più o meno un ricco quanto pericoloso cretino.

Chi ebbe la possibilità di seguire da vicino la campagna elettorale americana potè comprendere bene come Trump fosse (e sia) tutt’altro che sciocco giocando bene a suo favore una forte richiesta degli americani per una minore dipendenza dall’estero in campo economico e produttivo, soprattutto perché avrebbe potuto portare ad una difesa dei posti di lavoro.

Una tendenza all’isolazionismo che spesso si manifesta nel mondo con la globalizzazione che spinge le aziende produttive a decentrare là dove la manodopera costa di meno. Fermare questa perdita di posti di lavoro – piaccia o meno – è stato un cavallo di battaglia di Trump.

Ricordato che negli Stati Uniti il presidente decide, i ministri eseguono e il parlamento ratifica, è evidente come i tempi decisionali siano rapidi (anche per cambiare idea o correggerle) e non eterni come invece avviene in Europa dove la complessa macchina dell’Unione ritarda e rallenta le scelte.

Torniamo ad ormai quasi dieci anni fa, con lo scoppio della bolla speculativa bancaria: a Washington si decise di immettere sul mercato miliardi di dollari (ricordate il cambio a 1,38 contro l’euro?): fu un modo diverso di proteggere gli USA dopo i guasti della finanza internazionale per rendere competitiva l’America e funzionò, ma aumentando in modo enorme il debito pubblico, facendo comunque pagare ai cittadini le follie finanziarie di pochi e scaricando all’estero buona parte dei guai.

Oggi quella manovra sarebbe impossibile ed ecco quindi una politica di Trump a tutelare il “made in USA” per alzare il prezzo – per esempio – negli incontri con la Cina, partner fondamentale, nazione in crescita e detentrice di buona parte del debito pubblico americano.

L’abbiamo presa larga per sottolineare la superficialità o il preconcetto di molti commenti e come da noi i temi delle prime pagine dei giornali sembrino spesso dei giochi di prestigio dove le news appaiono e scompaiono velocemente senza lasciare traccia.

Per esempio, dopo tre giorni di accuse a Trump per i nuovi dazi che imporrebbe alle importazioni verso gli USA (colpendo – ci è stato detto – soprattutto le Vespe e il Parmigiano Reggiano e minimizzando che erano decisioni già prese da Obama) non ne ha parlato più nessuno e si è passati ad altro.

Premesso che le Vespe per gli USA non sono più prodotte dalla Piaggio a Pontedera ma che arrivano dal Vietnam – oltre ad essere scopiazzate in Cina – c’è da chiedersi se la mossa americana non dovrebbe insegnare qualcosa anche all’Europa.

Come detto, Trump vuole difendere i posti di lavoro e le produzioni USA, l’Europa soffre di crisi economica e occupazionale eppure si lascia travolgere – anzi, si direbbe che ne tragga piacere – nel farsi conquistare economicamente dagli altri, soprattutto dal Made in China (il marchio CE spesso non vuol dire “Comunità Europea” ma “China Export”, pochi lo sanno).

Siamo cresciuti in una mentalità liberista e di libero scambio dove i dazi sono visti come il fumo negli occhi, ma pochi riflettono che un conto è imporre dazi in un mercato piccolo (come gli staterelli che una volta costellavano l’Italia) e un altro farlo in un mercato grande, come quello degli USA che sono in grado di produrre al proprio interno quasi tutto.

Dovrebbe capirlo anche l’Europa che ha un mercato interno ancora più vasto e ben capace di assorbire la propria produzione eppure si lascia invadere dai prodotti extraeuropei che distruggono la produzione interna offrendo di solito prezzi molto più competitivi.

Soprattutto i media – di solito di proprietà della grande finanza – continuano sostanzialmente a ripetere che il liberismo è “modernità” e sono in questo campo feroci contro Trump perché qualsiasi regola non fa piacere a chi vive di grandi speculazioni finanziarie,

Eppure una volta i dazi difendevano le produzioni locali contro una concorrenza più moderna e agguerrita, oggi – in un momento di globalità planetaria e dove i tempi e i costi dei trasporti sono diventati minimi – prezzi molto competitivi sono spesso solo il frutto di approcci e sfruttamenti diversi delle risorse generali colpendo – è il caso dell’Europa – quei paesi che impongono salari adeguati, garanzie produttive, oneri sociali, sicurezza sul lavoro, standard di qualità ambientale, rispetto dei diritti, divieto di additivi. La conseguenza è che il consumatore viene spesso confuso (anche da aziende europee che importano la gran parte delle proprie componenti, ma vendendo poi come “europeo” il prodotto finito) oppure viene tentato da prezzi (come sul mercato dell’abbigliamento) per prodotti qualitativamente scarsi e comunque confezionati con costi umani a livello di autentico sfruttamento.

Se un mercato è vasto come quello europeo e potrebbe essere sbocco di produzioni interne, che senso ha mettere in crisi l’agricoltura e l’industria europea (vedi il riso proveniente dal sud est asiatico, ma vale anche per l’olio, i macchinari, gli strumenti…) imponendo costi esorbitanti di produzione e una infinità di regole se poi le imprese europee chiudono e la crisi incalza? Ecco perché l’Europa dovrebbe pensare a volte meno alla demagogia e più al proprio interesse collettivo nella consapevolezza che Trump è meno stupido di quanto si pensi.

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