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Attualità

DUECENTO ETTARI DOC

SERGIO REDAELLI - 16/06/2017

La nuova vigna che raddoppierà la produzione di Azzate

La nuova vigna che raddoppierà la produzione di Azzate

Varese ha un grande sogno. Dagli attuali diciannove ettari coltivati a vite potrebbe in qualche anno impiantare cinquanta, poi cento, fino a duecento ettari di nuovi vigneti. Che sarebbero nulla rispetto agli oltre tremila ettari che verdeggiavano sui colli varesini quando Carlo Porta inneggiava ai vini di Busto, Tradate e Angera nei Brindes de Meneghin all’Osteria, inveendo contro lo Champagne delle truppe occupanti di Napoleone e il Tokaj della restaurazione asburgica. E quando il vino requisito in Valcuvia e in Valceresio era il carburante dei legionari di Garibaldi in marcia sulle polverose strade della gloria. Era il 1848.

I “pagherò” firmati dal Generale conservati nell’Archivio di Stato testimoniano che il vino di Varese ha fatto la sua parte nel lungo cammino dell’Unità d’Italia. Nell’Ottocento i vigneti prealpini contavano la bellezza di centocinquanta varietà d’uva. Le censì il Comizio Agrario che era un po’ la Coldiretti dell’epoca. Sulle colline crescevano già rigogliosi il nebbiolo, la croatina, la schiava, il barbera e la vespolina. Di valle in valle i contadini chiamavano le uve con tanti nomi dialettali, spanna, chiavennasca, martinenga, uccellina, pignola, paganona e altro ancora. Assente invece il merlot, che oggi va per la maggiore.

Poi arrivarono le malattie della vite, la fillossera, la peronospora e l’oidio a falcidiare i vigneti. Altrove si reagì con efficacia. In Piemonte, per esempio, il sindaco-agricoltore Camillo Benso conte di Cavour inventò la solforazione dei vigneti per salvare i grappoli dei grandi rossi da invecchiamento. A Varese ci si rassegnò a innestare le più resistenti uve americane, Clinton, Isabella e York Madeira, dallo sgradevole retrogusto di fragola e lamponi. Ma oggi, dopo un secolo di abbandono, si vuol recuperare il tempo perduto. Ottenuta la Igt nel 2005, si comincia a parlare della Doc Ronchi Varesini e di estendere le vigne.

Sono soltanto pie illusioni? Vaneggiamenti di vecchi ubriaconi? Niente affatto. Si può fare, eccome, a patto che la politica non faccia orecchie da mercante. Se ne è discusso nella III Rassegna dei Vini Varesini che si è tenuta l’11 giugno a Induno Olona per iniziativa del Comune e di Slow Food. “Progettare una Doc nel territorio dei Ronchi Varesini è possibile, così come puntare ad estendere le vigne ad almeno duecento ettari”, sostiene il promotore Alessio Fornasetti, titolare dell’azienda Torre San Quirico ad Azzate che produce il “cru” di nebbiolo Sommo Clivo, premiato dall’autorevole Guida Veronelli con il Sole 2016.

“La dimensione piccola e frazionata dei Ronchi Varesini non è un limite ma una risorsa – spiega – Il produttore ha come sbocco commerciale un mercato piccolo e selettivo, oggi si dice di nicchia, dove conta la qualità. Un vino curato e selezionato. Di eccellenza. Per il piccolo produttore è un percorso obbligato per far quadrare il conto economico e acquisire la credibilità e la specializzazione indispensabili per soddisfare consumatori sempre più aggiornati, competenti e volubili. Parlo della generazione dei “millenials” dai diciotto ai trentaquattro anni che apprezzano e consumano i vini di qualità”.

Il nebbiolo varesino invecchia bene. Affinato in barrique può dare un vino in purezza d’alta qualità con caratteristiche aromatiche originali, degno di paragoni illustri nelle Langhe. Ma non c’è solo il nebbiolo: “Penso a una Doc che riconosca i vitigni storicamente appartenenti a questo territorio – aggiunge Fornasetti – a produzioni basate su uve vendemmiate esclusivamente nei Ronchi Varesini e a una Doc con rese di settanta quintali per ettaro contro i 140 della Igt. Lo sviluppo di una denominazione di origine coraggiosa e selettiva farebbe da traino all’imprenditoria giovane e ad un’economia in crescita”.

Nel 2016 sono arrivati in provincia di Varese oltre 1,3 milioni di turisti, pari a 2,2 milioni di presenze, la maggior parte stranieri e il vino è un formidabile mezzo per attrarne di nuovi, per incentivare il turismo enogastronomico e culturale. “Dobbiamo agevolare l’ingresso di investitori giovani che creino nuovi posti di lavoro specializzato e far crescere le attività di fornitura collegate alla viticoltura – osserva il produttore di Azzate – ma per farlo è necessario l’impegno delle associazioni di categoria e degli enti pubblici, la Regione in primis, cui spetta concedere le autorizzazioni e determinare i criteri di priorità”.

La Doc di Ghemme sulle colline novaresi ha 56 ettari a vite, la vicina Gattinara ne ha 104, il Canton Ticino 1095 tutti di merlot. Varese è ferma a diciannove ettari. Come aumentarli? Dal 1° gennaio 2016 è andato in pensione il sistema della compravendita dei diritti d’impianto e vige la nuova gestione che affida alle Regioni il compito di assegnare le autorizzazioni. “Il nostro appello – conclude Fornasetti – è che la Regione Lombardia sposi il progetto dei vini da valorizzare e sviluppare a Varese. Anche per il ruolo di collegamento che essa esercita con il Ministero delle politiche agricole e con l’amministrazione europea per la gestione dei fondi destinati alle piccole e medie produzioni vitivinicole”.

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