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Il racconto

COME ACQUA DI TORRENTE

GIOVANNA DE LUCA - 16/06/2017

torrenteEra un dolce autunno, quello che stava passando.

Il viale, lungo il torrente, era un tappeto di rossi, di gialli, di marroni…I tronchi quasi bianchi, forti e nodosi, si assottigliavano nell’intreccio dei rami, via via sempre più spogli. Il cielo chiaro nella luce del pomeriggio suggeriva un lento abbandono al declino.

Era uscita perché non sapeva cosa fare, anzi, proprio non aveva voglia di fare niente. Dunque niente scrittura, niente lettura, niente attività fisiche o domestiche: niente di niente. Allora si era infilata il primo trapuntato a portata, data una ravviata, ed era uscita.

Com’era bello quel percorso: lo conosceva da decenni e ancora non se ne stancava: il torrente, trasparente sulle pietre e sui sassi, si arricciava in schiume brevi e frequenti, alternava voci e gorgoglii. La lunga fila di alberi lo costeggiava, seguendo un forte muretto, e molte panchine invitavano alla sosta. Dal punto in cui si trovava, la fuga degli alberi portava lo sguardo al piazzale lontano, dove si intuivano automobili e movimento.

Da un po’di tempo si sentiva strana: l’abitudine a programmare la vita, a darsi mete da raggiungere, di qualsivoglia natura, sembrava aver perso forza. Quello che tre, quattro mesi prima l’avrebbe entusiasmata ora non le interessava più. Così aveva all’ultimo disdetto la partecipazione a un viaggio, per il quale si era tanto esaltata, e proprio quel giorno aveva inventato un malanno per non andare a uno spettacolo teatrale nel capoluogo, dopo aver fatto tanto per procurarsi il biglietto. Se riceveva un invito trovava una scusa. Se qualcuno per strada, incontrandola, la tratteneva a conversare, tagliava corto. Non sopportava, da qualche tempo, nessun tipo di confusione, odiava il chiasso più di quanto mai le fosse accaduto.

Amava ancora, e con più forza, quel percorso: tranquillo ed ampio, lungo ed arioso, aveva raccolto negli anni tutti i momenti più importanti della sua vita. Sulla pietra di quel muretto aveva gettato lacrime e sorrisi, speranze, sogni e delusioni. Lungo quel viale aveva spiato in lontananza la sagoma di chi aveva atteso per un appuntamento, su quel selciato aveva seguito il feretro dei suoi, corso per prendere il treno ad acchiappare la laurea, su quelle panchine aveva letto e ascoltato la voce del torrente, che in ogni momento, in ogni evento l’aveva accompagnata.

Era una voce che non tradiva. Non prometteva per poi non mantenere.

Avvertiva, negli ultimi anni, i limiti e gli inganni dei rapporti umani. Se escludeva le persone più vicine, le amicizie storiche, vedeva intorno a sé un modo di relazionarsi che le pareva cambiato. Non solo alla sua esperienza si riferiva, ma anche alla società intorno: pareva che tutti vivessero “in difesa”. Ognuno, pensò sedendosi su una panchina, chiudeva il proprio recinto su ciò che più gli stava a cuore: il lavoro, gli affetti, il ruolo sociale…Insomma su ciò che possedeva: il nuovo, o la persona nuova, era vissuto come una minaccia alla propria stabilità.

Le cadde lo sguardo su un formicaio, ai suoi piedi. Lo osservò: quelle piccolissime creature, meno di niente nella ricchezza dell’universo, seguivano tenaci il loro percorso. Ad esso le condannava la natura, senza libertà, senza rimedio. Ed anche quell’acqua che scorrendo tanto la allietava ubbidiva alla legge naturale; così il temporale che scoppiava, il fiore che sbocciava, il vento che muoveva le fronde… Sorrise tra sé per la banalità di tali pensieri. Pure, in definitiva, anche i comportamenti umani ubbidivano alle leggi di natura. E difendersi, nel senso più ampio della parola, era un diritto.

Si alzò, prese a camminare costeggiando il muretto. Il sole autunnale scendeva nel cono formato dai crinali di due montagne come cadesse dentro un imbuto. Si affacciò al torrente. Pensò che stava diventando come quelle pietre: levigate dal tempo, lasciavano con indifferenza che l’acqua scorresse su di esse, non mutavano per l’inquietarsi della corrente, non erano diverse il giorno o la notte. Raccolse una foglia, la rigirò tra le dita osservandola: era una foglia bellissima. Grande, aveva il gambo ancora verde e la nervatura centrale che da esso diramava le dava slancio ed eleganza. Portava in sé tutti i colori dell’autunno: il marrone sfumava nel giallo, il rosso le conferiva ancora forza e bellezza. Non pareva una foglia morta. Tra breve, privata d’ogni linfa e nutrimento, si sarebbe accartocciata su se stessa, sarebbe stata calpestata, ridotta a polvere sul selciato: poi, più niente.

Un rumore improvviso di passi, misto a voci e pianto di bambino, la fece voltare: dietro di lei giungeva una giovane donna che con una mano tirava un piccolo mentre con l’altra spingeva il passeggino ed anche teneva un cane al guinzaglio. Il bambino non voleva procedere e il cane tirava dalla parte opposta. Era affannata, arrabbiata, certo stanca.

Arrivata alla panchina vicina, vi si lasciò cadere, vi fece sedere anche il bimbo che, incuriosito dalla improvvisa presenza estranea, si era acquietato. Il cane smise di abbaiare, si accucciò.

La giovane guardò l’anziana signora, e sorrise.

“Bella giornata,vero?”, disse.

“Sì”.

“Oggi sono stanca però”,continuò mentre prendeva il bambino sulle ginocchia, trafficava nel passeggino, attaccava il guinzaglio alla panchina. “Mi hanno chiamato in fretta e furia dall’asilo perché lui”,e accennò al figlio,“è stato male. Sono dovuta correre là, è la terza volta in un mese, il capo comincia a guardarmi storto, e devo stare attenta. Già ho rischiato di perdere il posto quando sono tornata dopo la maternità, avevano dato il mio lavoro a un’altra, io ci ho rimesso e mi sono dovuta adattare e come potevo fare, con il bambino i soldi non bastano mai, in più mio marito aveva avuto un incidente, è rimasto a casa tanto tempo, solo da poco ha ripreso il lavoro, ma non è più lui, sembra sempre arrabbiato…”.

Parlava in fretta, confusamente.

“È un periodaccio. Lui non mi fa dormire, non so cos’abbia il mio bambino, nemmeno il pediatra capisce. Dice che è sano, che è solo nervoso, ha voluto sapere se io e mio marito litighiamo davanti a lui, io gli ho detto no, guardi, certo ci sono tanti problemi: io non ho più mia madre per aiutarmi e mia suocera deve pensare a suo marito, l’asilo costa… insomma le solite cose che sento anche dalle mie amiche”.

Si interruppe, la guardò:

“Lei non ha nipotini?”

“No”.

Il piccolo intanto giocherellava con un pezzetto di legno, ma dopo quel “no”detto a voce chiara aveva alzato lo sguardo: due occhioni azzurri pieni di stupore.

“Forse però”, riprese la giovane, “il pediatra un po’ ci ha preso: non riusciamo più a stare insieme come una volta, io e mio marito. Siamo sempre preoccupati per qualcosa. A volte mi prende una gran paura: e se mio figlio avesse qualche malattia strana, di quelle rare? E poi suo padre, non so, lo sento distante…”

“Sarà stanco anche suo marito. Si sa che un figlio cambia la vita. E poi vuole proprio pensare alle malattie rare? I bambini hanno i loro momenti, se lei si tranquillizza anche lui starà meglio”.

Si era intanto seduta accanto alla ragazza, che ora taceva e sembrava inseguire un suo pensiero.

“No”, aggiunse dopo un po’, “No, è che ho paura…ho paura… di essere di nuovo incinta”.

La parola rimase lì, sospesa nell’aria. Che dirle? Azzardò: “Beh, meglio farli subito, i bambini, finché siete giovani, intendo…”. Capì di aver parlato a vanvera: se un bambino costava molto, due costavano il doppio, né appariva quello il solo problema, era evidente.

Osservò la ragazza. Poteva avere trent’anni. Ciocche disordinate intorno al viso magro, look semplice, e sul polso un tatuaggio: una freccia in un arco che infilzava un cuore.

“ Ma è sicura?”, continuò riprendendo il discorso.

“ No, però …è probabile. Se è vero…non so come faremo,cosa capiterà sul lavoro, e allora mio marito dovrebbe fare gli straordinari, ma dopo l’incidente si stanca subito”.

“Ne avete parlato?”

“No, aspetto. Aspetto”. Tacque.

La guardò meglio. Dietro il look casual si intuivano alcune accuratezze: la sciarpa e gli stivali coordinati con la borsa, un anello originale all’indice. E aveva qualcosa di dolce e determinato insieme, nella linea del profilo e del mento. Era bella.

Forse aveva sognato per sé una vita migliore, un lavoro gratificante, una carriera, un modo per mettere a frutto le sue potenzialità. E un marito meno distratto.

Come se le avesse letto nel pensiero, disse:

“Mi sarebbe piaciuto studiare, andare all’università, diventare architetto. Ma i miei si sono separati, ho cominciato a lavorare presto, son accadute tante cose…”.

Si alzò. “Devo andare”, disse mettendo il figlio addormentato nel passeggino, la borsa a tracolla e afferrando il guinzaglio. “Devo andare, comincia a far fresco per il bambino”. Si salutarono.

Dopo alcuni passi, già avviata nel suo percorso, si fermò voltandosi: “Grazie”, disse.

Grazie! Colpita, scalfita da quella parola si sentì per un attimo destabilizzata. In fretta riprese la strada di casa, voltando le spalle al tramonto ormai avvenuto. Non aveva fatto niente per meritare quel “grazie”, aveva detto pochissime parole. Ed ora aveva un nodo in gola, un rimescolìo dentro, per così poco! L’aveva solamente ascoltata.

Di nuovo si affacciò al torrente, come faceva sempre prima di rientrare. Presto sarebbe stato buio. L’acqua scorreva senza riflessi, solo il rumore uniforme, immutabile sulle pietre scure.

Su di lei tanta ne era già passata: quanta,e quale, sarebbe passata sulla giovane donna? Sentì di amarla come una figlia, una figlia sconosciuta che non avrebbe visto mai più.

Salendo le scale, pensò che le persone sono come acqua di torrente: hanno una voce, e bisogna ascoltarla. Nient’altro.

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