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Cultura

COSI’ È CAMBIATO IL MONDO

DAVIDE LOVISOLO - 16/06/2017

futuroIl secolo XX è stato teatro di grandi sconvolgimenti sociali, ma anche di profonde rivoluzioni scientifiche: il mondo fisico è diventato un mon­do relativistico e indeterministico, nel rapporto osservatore-osservato è entrata la soggettività (principio di indeterminazione); le neuroscienze hanno cambiato il paradigma con cui guardiamo al vivente e alla nostra stessa specie.

Quali riflessi hanno avuto questi mutamenti nella visione del mondo, dall’infinitamente picco­lo alla scala cosmica, sulle forme di organizzazione sociale e politica del no­stro pianeta? È questa la domanda che si pongono Mario Agostinelli e Debora Rizzuto nel libro “Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta” (Mimesi), e la risposta è: poco o niente, alme­no a livello istituziona­le. E invece, per loro, è proprio sulla visione del mondo proposta dalle rivoluzioni scientifiche che si dovrebbe basare un approccio nuovo e alternativo alla fuoriuscita dalla crisi che ci soffoca: crisi ambientale, economica, finan­ziaria, ma anche e soprattutto demo­cratica.

Gli autori – uno storico sin­dacalista, ambientalista e ricercatore e una giovane fisica – partono da una descrizione, chiara e competen­te, dei nuovi paradigmi aperti dalla fisica novecentesca e dal loro impatto sulla visione del mondo, per passare poi ad analizzare quali siano state le ricadute sul piano dei rapporti so­ciali e di produzione. E la risposta è ancora netta: il potere economico-tecnocratico ha saputo incorporare queste scoperte in una nuova moda­lità di gestione del mondo, mentre la politica ha continuato ottusamente a ragionare in maniera deterministica, ottocentesca, legata al paradigma di una crescita senza limiti, e la massa dell’opinione pubblica non ha avuto accesso al patrimonio di informa­zioni legate a questa svolta e non ha potuto, di conseguenza, esercita­re nessun controllo critico, a livello individuale e organizzato, sulle sue implicazioni.

Relatività e quantistica sono entra­te prepotentemente nelle tecnologie che utilizziamo (o che ci fanno uti­lizzare) tutti i giorni: le informazioni viaggiano alla velocità della luce, le transazioni finanziarie avvengono in nanosecondi, tempo e spazio sono radicalmente diversi da quelli a cui la nostra specie era adattata; sostanzial­mente, non siamo più padroni del tempo, compresso artificialmente da scelte che vengono imposte dai po­teri dell’economia globalizzata che ha sterilizzato e asservito la politica.

E qui c’è una prima riflessione forte: la velocità non è facilmente compa­tibile con la democrazia, fatta di con­fronto, di scambi, di mediazioni dei conflitti. E il deficit di democrazia ha una faccia peculiare: l’asimmetria di poteri e diritti. Asimmetria nelle guerre, dove lo scontro è ormai ridot­to in molti casi al rapporto cacciato-cacciatore, con droni che scovano le prede comandati da qualcuno che sta a migliaia di chilometri di distan­za; asimmetria nell’accesso alla rete, dove lo spazio apparentemente pub­blico è condizionato da quella che gli autori chiamano una “torsione pri­vata” della sua architettura; asimme­tria nei conflitti di lavoro.

Riguardo a questo ultimo aspetto, come esem­pio viene opportunamente citata la possibilità di controllo on line e a distanza dei dipendenti introdotta con il Jobs act. Gli autori fanno notare come que­sti provvedimenti sposti­no sul piano individuale conflitti che riguardano le libertà collettive, sen­za che le organizzazioni sindacali sappiano inter­venire a questo livello: un grave limite.

Il libro parla di molto altro, basandosi su una grande massa di fonti: della cecità della politica di fronte ai limiti dello svi­luppo lineare (o esponenziale), di scelte energetiche sbagliate, di tec­nologie militari. Affronta anche in maniera molto stimolante il tema dell’uso di strumenti analitici estre­mamente sofisticati nelle previsioni finanziarie: il problema non è l’algo-ritmo, ma le ipotesi e il modello che si mettono in ingresso, che in molti casi sono fondati solo sulle aspetta­tive di quello che si vuole ottenere. Tutto il testo è pervaso da una for­tissima tensione fra quello che i nuo­vi paradigmi scientifici potrebbero offrire allo sviluppo della società umana e l’utilizzo “deviato”, a favo­re di pochi, che ne è stato fatto.

Ma questa tensione lascia aperto un pro­blema: come è stato possibile questo sviluppo deviato? Siccome siamo d’accordo che la scienza è un pro­dotto sociale, per cambiare i rapporti sociali basta adottare un paradigma scientifico più appropriato? La poli­tica istituzionale, a livello nostrano e mondiale, è ottusa, cieca e asservita perché non applica la rivoluzione scientifica quantistico/relativistica? Si rischia forse un’eccessiva sempli­ficazione, e involontariamente si po­trebbe ricadere nel vecchia questione se la scienza sia neutrale o no.

Con un po’ di semplificazione ci si può chiedere se valga forse la dicotomia scienza buona/tecnologia cattiva? Le due facce della questione non sono così nettamente separabili. Proprio per un utilizzo efficace delle rifles­sioni e delle argomentazioni che il libro propone questo è un punto su cui è necessaria una discussione ap­profondita.

 La società in cui viviamo ha profondamente accresciuto le di­seguaglianze e modificato i rapporti di forza a favore di una microscopica minoranza per una serie di cause e eventi complessi. La colpa dei nostri politici non è (solo) culturale, e lo stesso vale per i limiti delle forze di sinistra, che si sono adeguate al pa­radigma liberista o si sono chiuse in una sterile opposizione istituzionale. Non so se leggere Heisenberg o Einstein li avrebbe redenti…

Certo, un rapporto scienza/tecnologia diverso da quello attuale, più socialmente condiviso, controllato e cosciente dei limiti sarebbe uno strumento essen­ziale per uno futuro meno brutale e insostenibile per la nostra maldestra specie. Gli autori presentano, nei capitoli conclusivi, una serie di in­dicazioni interessanti e condivisibili, alcune note, altre innovative: tassa­zione sulle transazioni finanziarie (che avrebbe anche l’effetto impor­tante di rallentare, e rendere quindi più controllabile il processo) e sulle emissioni; controllo sociale dei data­base (impadronirsi degli algoritmi); salario di cittadinanza, per consen­tire a tutti un controllo sul proprio tempo; accesso universale a un’educazione scientifica di massa, che fornisca elementi di comprensione e di valutazione critica. Altre proposte sono più gestibili dal basso, come gruppi di acquisto per il fotovoltaico, inserimento nei contratti collettivi di lavoro della scelta degli algoritmi e delle piattaforme software che il la­voratore deve utilizzare, insieme alla ricontrattazione della formazione in orario di lavoro di nuove figure pro­fessionali.

In merito agli strumenti politici per realizzare questi obiettivi, il di­scorso si fa comprensibilmente più sfumato. Gli autori partono dalla constatazione che la sinistra tradizio­nale non sta combattendo i mali, ma lenendo i danni (ci riesce ben poco); propongono la necessità di una de­mocrazia radicata nel territorio e di una ricostruzione della rappresen­tanza; affermano che ciò non si può fare con il personale politico della sconfitta; fanno giustamente risali­re i guasti alla professionalizzazione della politica avvenuta a partire dagli anni ottanta. Sembrano però fare ri­ferimento a un socialismo democra­tico che, nelle sue forme concrete, non pare tanto in salute. La parola d’ordine è “svegliare i sonnambuli”.

Sì, ma come? Curiosamente, una parziale risposta a queste domande più “politiche” viene dalla postfazio­ne di Giorgio Galli: contributo non rilevante nella prospettiva di un libro importante e utile come questo, in quanto presenta una serie di propo­ste alquanto opinabili. Una per tutte, la più forte: siccome il potere politico globale è esercitato nei fatti dai con­sigli di amministrazione di circa 500 multinazionali, la proposta per una nuova rappresentanza democratica è l’elezione a suffragio universale, da parte di 7 miliardi di individui, dei Ceo (Chief Executive Officer ossia amministratori delegati) o di una parte di questi consigli. Mah. Sareb­be come proporre l’elezione diretta di Babbo Natale da parte di un paio di miliardi di bambini del mondo: pensate che festa!

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