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Presente storico

CITTADINANZA

ENZO R. LAFORGIA - 23/06/2017

cittadinanzaComunemente, quando si parla di «cittadinanza» si intende il rapporto tra individuo e Stato. Attualmente, nel nostro Paese, la cittadinanza è disciplinata dalla legge del 5 febbraio 1992, n. 91.

L’idea di cittadinanza ha radici storiche profonde. Così come, forse, la intendiamo ancora oggi, queste radici affondano nella cultura illuministica e nelle rivoluzioni settecentesche. La parola «cittadino» indicò lo status giuridico di ogni individuo, che, a prescindere dalla condizione di nascita (a prescindere dal ceto o dal gruppo sociale di appartenenza), godeva di diritti ed era tenuto ad osservare dei doveri nella relazione con altri cittadini e con lo Stato.

Già nel corso del tortuoso itinerario della Rivoluzione francese e poi ancora nell’Ottocento l’idea di cittadinanza è stata spesso confusa con quella di nazionalità. E questo è un lascito che condiziona il dibattito, che in questi giorni sta infiammando il nostro Parlamento. Si discute oggi se sia opportuno modificare l’attuale legge che, all’articolo 1, fonda la cittadinanza italiana sul diritto di sangue (se si è nati o si è stati adottati da genitori italiani) o sul diritto di suolo (se si è nati in territorio italiano da genitori apolidi o ignoti o da genitori che non possono trasmettere la propria cittadinanza al figlio secondo la legge dello Stato di provenienza).

Ora, questa idea di cittadinanza, ancora molto ottocentesca, si trova a dover fare i conti, e da molto tempo, con un mondo profondamente cambiato. Già a metà del Novecento, dopo il secondo conflitto mondiale e mentre si profilava la nascita di uno Stato sociale, si impose la riflessione che il sociologo e storico britannico Thomas Humphrey Marshall affidò al suo Cittadinanza e classe sociale (1950): la cittadinanza definisce l’appartenenza ad una comunità e condiziona l’interazione sociale attraverso quei diritti (civili, politici e sociali) e quei doveri, che regolamentano il comportamento di ciascuno e di tutti.

A cavallo tra secondo e terzo millennio, con l’insorgere di tutti quei fenomeni compresi sotto il termine di globalizzazione, abbiamo assistito ad un progressivo diaframma tra l’idea di cittadinanza e quello di nazionalità; ma nello stesso tempo, lo smarrimento di tradizionali ancoraggi sociali, ci ha spinto a rifugiarci entro presunti recinti identitari.

Nel nostro caso, ad esempio, a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, la nostra cittadinanza è divenuta “duale”: quella europea è andata ad aggiungersi a quella nazionale. Successivamente, il Trattato di Amsterdam del 1997 ha stabilito che «la cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima». E tuttavia, in quegli stessi anni, riemergeva la voglia di isolarsi, rinchiudersi in piccole patrie, rivendicare identità immaginarie, inseguire sogni secessionisti.

Oggi, l’emergenza immigrazione (ché di emergenza si tratta) dà nuovo alimento agli imprenditori politici della paura, i quali, di fronte alla possibilità accantonare, nel riconoscimento della cittadinanza italiana, il diritto di sangue, sventolano scenari apocalittici e rispolverano paranoie identitarie. Sono quelli stessi che fino a ieri ostentavano volgarità e disprezzo nei confronti dei simboli nazionali, della Carta costituzionale, delle istituzioni repubblicane ed ora si elevano a strenui difensori della “italianità”. (Pensate un po’, l’attuale legge del 1992, che definisce la cittadinanza italiana, all’articolo n. 10 afferma: «Il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato». A quanti degli odierni difensori dello ius sanguinis dovremmo revocare la cittadinanza italiana se applicassimo i principi espressi da questo articolo?).

Confesso che non sono del tutto convinto che il richiamarsi ad uno ius culturae possa semplificare le cose o renderle più chiare. Perché il problema, penso, è nella difficoltà che abbiamo oggi a definire le ragioni che tengono insieme degli individui trasformandoli in comunità. I confini, quelli politici e quelli culturali, appaiono sempre più sfumati o confusi o continuamente trasformati. E se un tempo la cittadinanza serviva innanzitutto a distinguere gli appartenenti ad uno Stato dagli “stranieri”, sempre più frequentemente scopriamo che lo “straniero” o addirittura il “nemico” è in mezzo a noi, anzi, lo abbiamo generato noi stessi. Insomma, se per Marshall la cittadinanza era la condizione che definiva i «membri a pieno diritto di una comunità», mi sembra che abbiamo smarrito non tanto il valore da dare alla parola «cittadinanza», quanto invece i contenuti che definiscano il senso e lo scopo di una «comunità».

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