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Cultura

SCHMITT, IL DECISIONISMO

LIVIO GHIRINGHELLI - 23/06/2017

schmittNato a Plettenberg in Westfalia, Carl Schmitt (1888-1985) filosofo del diritto e dello Stato, cattolico, nazista, antisemita, si presenta nel quadro del pensiero del Novecento come esponente di una concezione totalitaria dello Stato, in cui “Tutto è politico”, almeno virtualmente (Il concetto di politico, 1927). Stato e società nel mondo contemporaneo non rappresentano più sfere distinte come in passato. E la validità giuridica riposa soltanto sulla volontà del sovrano.

È la decisione in quanto tale che crea il diritto: auctoritas, non veritas, facit legem, dichiara, citando Hobbes, (I tre tipi di pensiero giuridico, 1934).

Già Jean Bodin (1529-1596) nei Sei libri della repubblica (1576) aveva dato con il suo princeps legibus solutus la teorizzazione più esauriente dell’assolutismo (ma con la condizione del rispetto delle leggi religiose e dei diritti di natura imposto al sovrano), onde la sua polemica contro il machiavellismo e l’affermazione della tolleranza religiosa.

Per Schmitt il diritto non è tenuto a essere dipendente da norme di etica e di giustizia o da valori tradizionali e il fondamento sta nella volontà del sovrano, mentre in uno Stato di diritto, che identifica lo Stato con l’ordinamento giuridico, la norma dice solo come si deve decidere, non chi deve farlo. Nella situazione dello Stato moderno in cui non esiste più una legittimità tradizionale, bisogna creare la normalità, perché la norma posa valere e l’eccezione, che conferma la regola che ne vive, è logicamente anteriore alla normalità ed è qui che si pone il problema della sovranità, dato che ogni ordine riposa su una decisione, non su una norma.

I concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati (Teologia politica, 1922): una cosa è giusta non perché risponde a un modello o a un valore, ma semplicemente perché è Dio che la prescrive. Col mutare del centro di riferimento spirituale delle varie epoche si va da quello teologico (sec.XVI) al metafisico, proprio del razionalismo seicentesco, dal morale (sec. XVIII) a quello economico (sec. XIX). Questa è l’epoca della tecnica, totem culturale del nostro tempo, che serve a tutti, a ogni forma di vita organizzata e che non può valere come centro di riferimento.

Ecco comparire allora la necessità dello Stato totale. “Il fenomeno del politico può essere compreso solo mediante il riferimento alla possibilità reale del raggruppamento amico-nemico”. C’è politica dovunque si determini questo tipo di relazione (Freund-Feind)”. Hostis è il nemico pubblico, inimicus quello privato. Risulta impossibile in linea di principio che il conflitto venga risolto grazie al giudizio di un terzo soggetto imparziale o a un sistema prestabilito di norme. Ecco l’indispensabilità di una sovranità con funzione monocratica, non condivisa, a risolvere lo stato d’eccezione. Un soggetto decide che cosa è legale e un soggetto decide sulla sospensione per salvare lo Stato.

Schmitt critica Kelsen per la sua concezione di un universo del diritto intesa come dimensione pura, per il suo impianto formalistico. Dal principio individualistico, che è la base del liberalismo, discende la negazione della politica. C’è un’antropologia ottimistica con l’idea di progresso, mentre è invece smentita la profezia liberale di Benjamin Constant sulla fine dell’età della guerra.

Oggi il progresso tecnologico è molto spesso indirizzato a scopi militari. Il conflitto può spingersi sino alla guerra. “La guerra non è lo scopo o meta o anche solo il contenuto della politica, ma ne è il presupposto, sempre presente come possibilità reale” e lo Stato possiede, almeno in teoria, il monopolio dello ius belli. Se

una nazione ripudia davvero la guerra, perde l’indipendenza.

Allievo di Weber all’Università di Monaco Schmitt si laurea nel 1910, divenendo poi professore di diritto pubblico. Si trasferisce a Berlino nel 1933. Come per Heidegger chiara è la sua adesione al nazismo, anche se le sue tesi politiche sono maturate precedentemente all’ascesa di Hitler. Diventa membro del Consiglio di Stato prussiano, presidente dell’Associazione dei giuristi nazionalsocialist, ma, contestato dagli ideologi ufficiali del regime, rinuncia agli impegni extra-accademici dal 1936. Si schiera in difesa delle leggi antisemite e delle guerre hitleriane. Nel 1945 è arrestato dagli Alleati, ma viene assolto con un non luogo a procedere. Muore nella città natale nel 1985.

 Mentre Schmitt guarda con nostalgia ai filosofi della reazione, che seppero inquadrare in modo chiaro il tema della decisione, evidenzia in negativo che il monopolio statale della politica è finito quando lo Stato ha riconosciuto i partiti. Con la tecnica poi che non è affatto neutrale, la neutralità spirituale è approdata al nulla spirituale. Sullo sfondo la crisi mortale della Germania di Weimar e, in precedenza, il quadro affacciato nel 1918 da Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler: esaurito lo slancio iniziale, millenario, alla religione succede il socialismo come irreligione, l’economia non è più diretta dalla politica, il denaro è diventato il punto di riferimento, la tecnica non è più il privilegio di uomini superiori.

Schmitt è poi evidentemente critico verso la filosofia della storia del marxismo e dell’idealismo.

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