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Attualità

DON MILANI, L’EDUCATORE

EDOARDO ZIN - 30/06/2017

barbiana“Il fatto che don Milani ci sia stato, la sua dedizione totale e rigorosa, la sua esperienza d’avanguardia e le sue scoperte di esploratore del mondo contadino, il suo rifiuto totale della logica insita nella scuola esistente, tutto ciò è un contributo decisivo alla costruzione di una nuova scuola”. Così scriveva Lucio Lombardo Gentile nel 1967, all’indomani dell’uscita di “Lettera a una professoressa”.

Ricordo che anch’io, giovane insegnante, mi commossi nel leggere quelle pagine e contemporaneamente mi irritai: la scuola media unica era diventata ormai obbligatoria da quattro anni, ma con alcuni miei colleghi ero costretto a passare in qualche cascina del paesino dove insegnavo per prelevare ragazzini in età di obbligo scolastico e sottrarli alla noncuranza dei genitori che preferivano farli lavorare nei campi.

Don Milani era stato confinato a Barbiana, un piccolo gregge del Mugello di poco più di duecento anime, senza strada né elettricità, a causa dei suoi metodi pastorali considerati da molti sovversivi. Il mite e umile arcivescovo Elia Dalla Costa era morto da sei anni e gli era succeduto Ermenegildo Florit, che governava la diocesi più col codice di diritto canonico che con il Vangelo.

Il priore di Barbana si definiva un maestro prima che un prete, anzi aggiungeva che si era fatto prete perché aveva capito che se Dio si fa trovare, lo fa perché si aiuti gli altri a cercarlo. Con la “Lettera a una professoressa”, scritta dai suoi ragazzi, e pubblicata prima che morisse a soli 44 anni colpito da leucemia, don Milani suggellava il suo immenso amore per gli ultimi, i poveri, quelli che papa Francesco chiama “scarti”, rifiuti. La scuola di Barbiana non è un testo di pedagogia (“Chi insegna pedagogia all’università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente, come noi si sa le tabelline”), è piuttosto un sistema educativo che diviene la carta spirituale dell’azione del “maestro” don Milani.

La sua scuola era al servizio dei più poveri. Il maestro li voleva educare a un’autonomia di giudizio critico per affrancarsi dall’ignoranza, dal conformismo e per legarli poi assieme a tutti gli uomini in una solidarietà universale. I suoi alunni erano i figli dei montanari che vivevano ai margini, dimenticati, allontanati dalla scuola creata dai borghesi per i figli dei borghesi (“Una scuola tagliata su misura dei ricchi. Di quelli che la cultura ce l’hanno in casa e vanno a scuola solo per mietere diplomi”). Contrariamente a quello che si diceva a quei tempi, al centro della scuola non c’era l’alunno, ma il maestro. Infatti, senza un maestro eccezionale come don Milani sarebbe stato difficile che, per concorrere all’emancipazione dei ragazzi di quel borgo, il maestro si fosse limitato a spiegare nozioni su nozioni. Don Milani proponeva valori che incarnava e testimoniava. La sua opera educativa era intervento e non contemplazione.

Aveva del ragazzo, che con lui imparava, un’idea di uomo in continua formazione, con le sue potenzialità. Non vedeva in lui un “homunculus” da trattare mellifluamente con sdolcinature fiabesche, non credeva al ragazzo “negato per gli studi”: no, quei ragazzi sarebbero diventati uomini solidali se avessero preso coscienza della condizione storico – politica in cui il mondo era immerso, se fossero stati immersi nella storia quotidiana.

Voleva bene ai suoi ragazzi. Era prete e consacrava a Dio, non solo se stesso, ma le primizie d’umanità che gli erano state affidate. Nel suo testamento scrive: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che lui non sia attento a queste sottigliezze.” La relazione educativa a Barbiana era improntata a amore e a autorità, che non era il desiderio di governare, quanto quello di autorizzare a fare quanto era nei desideri di quei ragazzi. Il priore-maestro era tanto esigente quanto appassionato. Scrive: “La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare. Però chi era senza basi, lento e svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti.” Il suo comportamento aveva valore di testimonianza e nell’insegnamento rivelava la sua vocazione regale di servo.

La relazione educativa maestro-alunni non era a un’unica direzione: la vita a scuola entrava a pieni fiotti ogni giorno, si rifletteva leggendo i giornali sugli avvenimenti che irrompevano nel pianeta, i ragazzi si informavano e discutevano, prendevano posizione, si sentivano corresponsabili e così uscivano dal loro piccolo mondo, rispettando la propria coscienza di fronte agli avvenimenti e a disubbidire alle autorità opprimenti l’uomo.

La chiave della forza di ciò che il maestro Milani aveva intuito era la potenza della parola. È il suo punto forte. Attribuiva tanto valore allo studio della lingua perché vedeva in esso la possibilità di comunicare, di esprimersi per penetrare il reale, a Barbiana si parlava, cioè si esponevano idee mentre altri ascoltavano e poi intervenivano, senza sovrapporre la voce: era una scuola di democrazia. Il prete-maestro stimolava i suoi ragazzi a rintracciare il vocabolo giusto, esigeva la perfezione lessicale, toglieva gli aggettivi inutili, ma non le iperbole sconce. Ha educato i suoi ragazzi a “essere specialisti del parlare”. A un suo alunno che si presentava per la prima volta nella sua scuola, don Milani domandò: “Quanti vocaboli possiedi? Al massimo 250: il tuo padrone non ne possiede meno di 1000; questa è la ragione per cui lui resta padrone e tu rimani nelle condizioni in cui sei: povero e servo.” Sono certo che don Milani oggi insegnerebbe l’italiano ai migranti con un vocabolario di base che costruirebbe assieme a loro.

L’organizzazione della scuola era molto semplice: non esistevano programmi, testi, registri, interrogazioni. I più grandi insegnavano ai più piccoli e intanto imparavano per sé. Don Lorenzo insegnava ai più grandi. I suoi sussidi erano: i giornali, un globo terrestre, le carte geografiche, l’audizione di un disco per imparare le lingue straniere o l’intervista a un ospite inatteso.

La scuola di Barbiana era molto lontana da tante scuole che vanno molto di modo oggi (feste di compleanni, gite, recite natalizie, danze e canti insulsi, progetti, lavoretti per la festa della mamma…). Barbiana non era un gioco, ma un interrotto comunicare con gli altri. Don Milani, che in gioventù aveva frequentato Brera, rifiutava anche i momenti estetici (“mai un contadino guarda il cielo o il bosco perché sono belli!”), ma faceva ascoltare la nona di Beethoven o “Le quattro stagioni” di Vivaldi. A Barbiana si lavorava sul serio: dodici ore al giorno per 365 giorni all’anno e 366 negli anni bisestili. In estate c’era la piscina, costruita con gli aiuti degli amici del Priore, e in inverno si sciava. Inviava i suoi ragazzi all’estero per impratichirsi delle lingue straniere e ricambiava ospitando a Barbiana qualche ragazzo straniero.

Non so se la buona scuola d’oggi sia veramente tale. So per certo che per essere tale ha bisogno di educatori che realizzazione il loro compito perché hanno capito che la scuola esige senso e amore della vita, capacità di risvegliare coscienze. Conosco insegnanti che, benché sprovvisti di mezzi, oberati da un lavoro eccessivamente burocratico, portano ragazzi e giovani alla piena maturità d’uomo: in ultima analisi, è questo “l’unico necessario” della scuola.

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