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Opinioni

IL PARTITO SINDACATO

FELICE MAGNANI - 07/07/2017

sindacatoMolti anni fa mi capitò di scrivere alcuni appunti, che inviai a un notissimo esponente della politica nazionale. Erano appunti nati da una passione, dalla voglia di aprire la porta a pensieri che mi balenavano per la testa e nei quali credevo fermamente, pensieri che nascevano da una vocazione interiore che, come si sa, in molti casi viene male interpretata o non capita e, spesso, volutamente negletta. Sulla base di una purissima spontaneità passionale ho scritto pagine di punti di vista su tutto il campo della politica.

La risposta l’ho ricevuta, ma più sul piano della correttezza formale che non su quello di come quel politico importante avesse giudicato il mio malloppo. A distanza di molti anni mi sono reso conto che molte delle osservazioni che scrivevo venivano a galla, era come se quelle annotazioni fatte anche col cuore prendessero forma, al punto che mi domandavo come mai politici di rango e di carriera non avessero avuto le mie stesse idee, per concludere che magari le avranno avute, ma che per continuare ad essere quello che erano diventati, le avevano cestinate, magari per ragioni di furbizia politica.

Chi è stato dentro per anni nel sindacato, sa benissimo del tipo di mentalità che correva dentro questo fiume di caratteri, forme, sostanze, punti di vista, orientamenti. Negli anni Settanta, ad esempio, chi insegnava nelle centocinquanta ore era pressato e in parte anche forzato da un sindacato estremamente politicizzato, dove spesso le distanze di natura ideologica erano infinitamente piccole, quasi inesistenti. L’obiettivo era la classe padronale: il padrone, la lotta operaia, la formazione politica, l’impegno su tutti i fronti, la necessità di fare da sponda a chi aveva la leadership ideologica e sociale come ad esempio la sinistra più accesa naturalmente e per sinistra intendo il Partito comunista e tutta la sfera allora comunista.

Ricordo di interminabili sedute alla Camera del lavoro, con i massimi rappresentanti dell’ideologia marxista a pontificare sulle necessità di una politica scolastica meno di classe e più popolare. Si trattava di operazioni puramente dottrinali, anche se si tingevano di intuizioni e di interpretazioni particolari, nati in molti casi da una composizione chimica in cui il rosso era il colore guida.

C’era un parallelismo tra azione politica e azione sindacale e nella maggior parte dei casi i due orientamenti si riunificavano, anzi, si riunificavano sempre, confluivano in quella sorta di veleno sociale che ha caratterizzato buona parte degli anni sessanta e degli anni Settanta. I muri erano ancora molto alti e l’intellettualismo di maniera sovrastava qualsiasi buona intenzione. Se non eri marcatamente di parte non eri nessuno e poco contavano le tue belle idee, il tuo essere veramente democratico fino in fondo.

La mia debolezza? Quella di non avere lottato per la cadrega, di non pensare in modo scorretto, la voglia di aiutare sempre tutti, anche quando i tutti erano isole e penisole che nascevano qua e là, ma senza la forza necessaria per rompere l’incantesimo delle caste.

Negli anni Settanta chi si occupava di politica anche solo nel cuore e nel pensiero si accorgeva che c’era una deriva profonda, una forte confusione dei ruoli, sudditanze di vario ordine e grado, che creavano disorientamenti e confusioni, non si riconoscevano più i confini e le frontiere, per cui poteva diventare possibile tutto e il contrario di tutto.

Il legame dei grossi sindacati nazionali con i partiti di provenienza erano fortissimi, al punto che in molte circostanze non si capiva più chi era il partito e chi il sindacato. È stato un errore solenne, anche perché non ha giovato assolutamente a una visione più vera e reale di come si stava mettendo il mondo. Il problema primario non era tanto quello di emancipare la classe operaia, ma di mantenere il potere, i giochi gravitavano tutti intorno alla natura ideologica del potere, a come fare per renderlo sempre più monolitico, forte, inoppugnabile e così, lavorando più sul personale che sul sociale vero e proprio, hanno via via reso sempre più fragile e incomprensibile il ruolo del sindacato, problema che è arrivato fino a noi con tutte le conseguenze del caso.

Oggi da più parti ci si domanda, lo fa persino il papa, che ruolo abbia un sindacato che di fatto dimostra ampiamente di non essere vicino al mondo del lavoro e ai lavoratori. È un fatto che si tocca con mano anche a proposito del problema migratorio, dove tutti parlano di lavoro, di inclusione, di strategie, mentre la fonte delle operazioni, lo spazio e il luogo dove la costruzione dovrebbe emergere, non esiste o quasi.

Negli anni Settanta il sindacato era diventato un partito politico, avrebbe potuto sedersi comodamente in parlamento e in molti circostanze lo ha fatto facendo eleggere molti suoi rappresentanti, alimentando una confusione di ruoli che non ha giovato per nulla alla classe operaia, sempre in attesa di qualcuno che la difendesse super partes nei suoi interessi reali, legati soprattutto al posto di lavoro, al salario, alla dignità, alle strategie lavorative, insomma a tutte quelle cose che sanno poco di politica dottrinale e molto di vita reale, di come deve essere trattato un cittadino che rispetta le leggi dello stato in cui vive.

Forse il sindacato deve fare un profondo esame di coscienza, riandare alle origini del suo mandato, ristudiarsi la storia di quando è nato e di come è nato, di dimostrare che cosa sia realmente e chi sono tutte quelle persone che pagano una tessera per essere protette, tutelate, sostenute, stimolate, amate, un sindacato che guardi al bisogno e alle necessità della gente comune, di quella che bussa con insistenza umana alle porte istituzionali per capire ed essere capita, indipendentemente da fatto che sia bianca, rossa o verde.

I colori nella società di oggi contano pochissimo, la gente vuole vederci chiaro, vuole vedere una speranza e la cerca là dove questa speranza ha dovuto lottare con forza per trovare forme umane di sopravvivenza. Non un sindacato d’élite dunque, ma un sindacato di base capace di stare con il popolo, con tutto il popolo, con quello che porta ancora la tuta e con quello della camicia bianca.

Non importa quale sia la tessera che uno abbia in tasca, non importano i colori, importa soprattutto la gioia di poter trovare un lavoro, di sentirsi aiutati e accompagnati in una società dove i più deboli si perdono per strada, non sanno più da che parte guardare.

In quelle pagine che avevo scritto c’era tutto questo, c’era la voglia di dire che la politica è capacità di leggere e di interpretare la realtà, di dare voce a chi non ce l’ha, di ridimensionare gli eccessi, di dare una mano alle persone che vivono e lavorano con grande fatica, anche per colpa di una classe padronale non sempre disposta a confrontarsi e a mettersi in gioco.

Dunque fare autocritica, rivedersi, emanciparsi, rinascere, dimostrare che la realtà è molto più importante delle illusioni che vengono sistematicamente fatte confluire in un bollitore arrivato ormai all’orlo.

Ogni tanto mi capita di ricordare quello che un sindacalista comunista mi diceva prima dell’inizio delle lezioni: “Professore, dovrebbe andare a studiare a Mosca, le darei una mano”.

Lo ringraziavo, forse lui non capiva che il mio essere democristiano non era legato ai santi in paradiso, alle lotte di potere, ma semplicemente a una voce del cuore nata in un “parcheggio” oratoriale, dove prendevano forma vari modi di intendere la vita e dove l’azione non era condizionata dalla dottrina, ma dalla generosità personale, dalla voglia di dimostrare che si poteva fare bene, fare cose belle, anche iscrivendosi a un partito o a un sindacato.

Che cosa fare? Un passo indietro, respirare profondamente, fare un bell’esame di coscienza, ripulire, ricostruire, rimettere in moto, ridare fiato a chi non ce l’ha più, a chi è senza lavoro, a chi brancola nel buio, a chi si uccide perché non sa più che pesci pigliare e smetterla di arrampicarsi sugli specchi, di predicare bene e di razzolare male.

La vita ricomincia sempre, bisogna avere la forza e il coraggio di farla ripartire senza se e senza rimpianti, ma con la certezza che il futuro sarà sicuramente migliore se sapremo essere davvero noi stessi e non sudditi di qualcuno o di qualcosa che non riguardi la gente che ci osserva e che si aspetta un cenno di speranza, per tornare a vivere.

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