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Il racconto

I PAPAVERI, IL GRANO

GIOVANNA DE LUCA - 28/07/2017

granoSdraiato supino sull’erba, con una gamba tesa e una piegata, le braccia dietro la testa e il berretto appena appoggiato sulla fronte, masticava un filo d’erba.

Era uscito subito dopo mangiato, aveva attraversato la cucina scura verso la corte della cascina che illuminava l’entrata come un faro. Fuori era la canicola della piena estate. Sua madre lo aveva guardato e non gli aveva chiesto niente. Il giorno dopo egli sarebbe partito: era il 1916, e suo figlio era stato chiamato con cartolina precetto al Centro di Mobilitazione. Aveva ventiquattro anni, aveva già fatto il servizio militare, ed era un riservista. Via via come lui altri uomini della cascina erano partiti, in quell’ultimo anno. Era scandalosamente figlio unico, non ne erano venuti altri nonostante le preghiere, i pellegrinaggi, financo il ricorso a strane magie. Così unico era rimasto, e sarebbe andato in guerra.

L’essere unico sottolineava anche la sua posizione particolare all’interno della cascina, perché era figlio del fittavolo, e sapeva leggere e scrivere. Quella era una cascina grande, con una scuola, un’osteria e la chiesa.

Oggi aveva preso il Moro, suo preferito, lo aveva attaccato al calesse, e se ne era andato attraverso i campi, piano piano, incurante del caldo, fino ad un punto che conosceva. Lì lo aveva legato ad una staccionata, si era allontanato e buttato nell’erba alta.

L’erba correva poco distante dal canale che sfociava nell’affluente e poi nel grande fiume, dove si era bagnato tante volte in certe fughe domenicali. Nel campo fiancheggiante l’erba il grano era già stato tagliato: era infatti il pieno della mietitura, e anche lui da ragazzino aveva fatto la sua parte nel raccogliere i mazzi di spighe che avrebbero poi formato i covoni. Dalla sua posizione vedeva il cielo in alto e a un fianco le cime di un filare di pioppi. Le cicale impazzite erano il solo rumore.

Riandava agli ultimi mesi, e agli anni della sua prima gioventù.

Tutti avevano sempre pensato che avrebbe fatto qualcosa di meglio del contadino, poiché era andato a scuola e suo padre si poteva dire ricco. Non quanto il padrone della terra, naturalmente, con cui nessuno aveva mai parlato se non il fittavolo. Così un giorno il ragazzo era uscito dalla cascina, e aveva fatto un viaggio: era andato a Milano. Il prete gli aveva dato una lettera di presentazione. Ora quei mesi gli parevano lontanissimi. Alloggiato in un convento, un frate gli aveva insegnato tante cose, lo aveva avvicinato alla storia, all’arte, gli aveva aperto gli occhi sul mondo. Ma più era stata importante l’esperienza diretta: quelle strade, quei monumenti, quei negozi! E le persone tanto diverse, un modo inimmaginabile per lui di rapportarsi tra loro, e la quantità di cose che tutti sembrava sapessero, mentre lui no. Aveva capito che la cascina era un mondo chiuso, una sorta di piccola città, autosufficiente, ma circoscritta a un’idea del vivere che gli si rivelava soffocante.

A Milano aveva conosciuto Adalberto. Si erano letteralmente scontrati in Galleria, poi ridendo Adalberto aveva detto:

Beh, tanto vale che ci presentiamo!”.

Così piano piano erano diventati amici. Adalberto non sembrava stupirsi della sua aria da contadino. Era un giovane bello, elegante senza ostentazione, istruito. Parlava con tutti con aria sicura, non lo trattava mai come un ignorante. Suo padre era avvocato. Aveva sempre dei libri con sé, spesso la sera incontrava altri amici, di cui nei primi tempi della loro amicizia non gli aveva parlato.

Poi un pomeriggio, seduti nel verde del Parco, gli mostrò un libro e gli chiese: “Sai chi è?”. Dove sta il nome dell’autore egli lesse: “Bakunin”.

Con aria interrogativa guardò l’amico.

Ora ti spiego”. E cominciò a spiegargli.

Erano discorsi difficili. Adalberto parlava con calma, partiva da esempi che erano nell’esperienza di un campagnolo e lui ascoltava incantato, anche confuso a tratti. Come, non esserci nessuno che comandava? E come si sarebbe fatto, quando le leggi della natura, e le impellenze della campagna richiedevano ordine ed ubbidienza, capacità decisionali e polso del fattore? Mettersi d’accordo secondo leggi naturali? A lui sembrava che tra contadini spesso fosse più forte l’istinto del litigio che dell’accordo. La maggioranza non deve comandare? Ma quante volte, riuniti sull’aia, ritto in mezzo a tutti il fattore, si era dovuto decidere cosa fare se un argine aveva ceduto, se il raccolto andato male comportava danni e quanti, e solo una decisione maggioritaria aveva risolto i problemi?

Durante questi colloqui era rimasto spesso perplesso. Ma Adalberto appariva così convinto, così fiducioso ed entusiasta che non gli riusciva di contrastarlo. Gli prospettava un mondo migliore, dove le violenze non ci sarebbero state più, dove nessuno gli avrebbe imposto di togliersi il cappello e chinare il capo se passava per i campi il proprietario delle terre, mentre avrebbe potuto salutarlo guardandolo negli occhi. Così aveva finito con il seguirlo, anche alle riunioni con gli altri.

Queste avvenivano in un palazzo signorile del centro storico di Milano, dove un giovane accoglieva gli amici per fare musica…

C’erano però altri giovani in città, non meno determinati di Adalberto e dei suoi amici, ma di idee ben diverse. Credevano nella Nazione, nel riconoscersi di un popolo nelle proprie tradizioni e nella propria storia, nella forza dello Stato, e non ripudiavano l’uso della violenza per imporsi. Ne conobbe alcuni, ne vide spinti da motivi ideali. Ma il pacifismo di Adalberto lo coinvolgeva, ed era suo amico. Sapeva che uno degli oppositori in particolare gli era ostile, lo aveva minacciato.

Una sera, dopo un “concerto”, uscendo dal palazzo ad ora tarda, quattro individui avvolti in un mantello li aspettavano, seminascosti, all’angolo. Ne venne avanti uno, che cominciò a deridere Adalberto, ad affibbiargli epiteti offensivi, a chiamarlo “signorino debosciato”. Lui disse piano stringendogli il braccio: “Veloci, andiamo via”. Ma l’altro con un balzo gli fu di fronte, impedendogli la strada. Continuava ad insultare, gli si faceva sotto minaccioso. Quando volò un nome femminile, Adalberto reagì. Lottarono avvinghiati. Furono attimi: più forte di corporatura l’aggressore ebbe la meglio, Adalberto cadde. Intanto era uscito dal palazzo di fronte il portiere, che si mise a gridare, mentre i quattro fuggivano sghignazzando nella notte.

Egli che fino a quel momento era rimasto impietrito, a un passo dall’amico, vedendolo immobile a terra gli si avvicinò:

Adalberto, Adalberto, dai, andiamo via, sono scappati, andiamo…”. Ma Adalberto non si muoveva. Allora si chinò su di lui e sempre chiamandolo lo scosse prendendolo per le spalle: un fiotto di sangue, un purpureo enorme fiotto di sangue sgorgò dalla nuca di Adalberto sulla giacca, sui pantaloni, giù giù lungo il marciapiede. Si alzò con un urlo. Il portiere lo prese per un braccio, gli intimò concitato:”Via via, vai via, scappa! Non vedi che è morto, è morto, ha picchiato la testa su un ferro che sporge, è morto..Sta arrivando gente, verranno le guardie, ma non capisci? Scappa!”.

Era scappato.

Una quindicina di giorni più tardi, alla cascina se lo videro arrivare pallido, smagrito, taciturno. I genitori parlavano la sera tra loro, seduti al tavolo della cucina, e si domandavano cosa mai fosse successo a Milano, dove lo avevano mandato per vederlo tornare contento.

Lentamente la vita della cascina lo riprese. Viveva come in una bolla che lo teneva separato da ciò che accadeva, da ciò che faceva. Tutto nel suo animo era confuso: ciò in cui credeva Adalberto si mescolava con ciò in cui credevano gli altri, in un continuo intrecciarsi di uguaglianze e differenze, per arrivare sempre a quel punto: la violenza, la morte. Infine era scoccata l’ora della leva. Un periodo opaco, in cui aveva fatto due cose: ubbidire agli ordini e, nelle ore di libera uscita, stordirsi.

***

Sentì pungere una zanzara, si mosse e si rese conto di essere goloso oggetto di insetti: la terra sotto di lui nonostante il caldo era umida, qualcosa strisciava sotto le sue gambe, un calabrone cercava appoggio sul suo berretto. La terra. L’aveva odiata, come si odia un marchio che ti definisce. Ora con la mano scavò tra l’erba, ne trasse un pugno, lo alzò per guardarla: da essa tutto veniva, ad essa tutto tornava. Uomini, da sempre, spendevano la loro vita a lavorarla, curarla, amarla. Senza di essa, niente poteva esistere, nemmeno la città che vi affondava i suoi palazzi.

Prima dello scoppio della guerra una sera, nella grande cucina, c’era stata una violenta discussione. Laerte il bergamino, socialista, e suo padre, uomo d’ordine, si erano scontrati sulla questione dell’intervento.

Io”, aveva gridato Laerte nel suo dialetto romagnolo,“ero a Milano nel’98 e mi sono preso una rivoltellata da Bava Beccaris e ho visto, ho visto con i miei occhi la gente ferita intorno a me, povera gente morta di fame che non contava niente! E non la voglio fare, no, questa guerra, perché non ci credo che come dicono certi compagni servirà a buttar giù i signori! Quando sarà finita chi ha i soldi tornerà a comandare come prima! E noi…carne da macello!”E aveva picchiato un gran pugno sul tavolo.

Ma cosa credi”, aveva gridato suo padre,”cosa credi? Che mi piacerebbe di mandarci mio figlio, l’unico che ho, e di patire le disgrazie della guerra? Ma non sai che se non diventiamo un paese vero, se non diventiamo una vera nazione, saremo sottomessi a chiunque voglia calpestarci in qualsiasi modo, come è sempre stato? Ho ben sentito in piazza l’altro giorno che lo dicevano, ho ben sentito, e a parlare era gente che sa quel che dice, non ignoranti come noi!”.

A quel punto egli era uscito, si era allontanato, si era seduto in terra con le spalle a un muro, a guardare le stelle.

Era una serata bellissima: il manto azzurro cupo del cielo copriva la pianura adornandola di fiammelle, seguiva il profilo degli edifici intorno: il fienile, il granaio, il forno, le abitazioni dei contadini…Tutto era così calmo, così in pace. La discussione in casa riapriva la mai sopita ferita della morte di Adalberto, di quella fuga dal corpo dell’amico. Pure, nei conflitti suoi interiori e in quelli politici, sociali, gli pareva di intravvedere, seppur vagamente, un’indicazione di vita: se essi esistevano, egli voleva vivere per combatterli.

Voleva fare il contadino: se lo ripeteva adesso, sdraiato nell’erba, lo voleva come mai avrebbe immaginato. E si sarebbe aggiornato, sapeva che stavano diffondendosi nuove tecnologie, che nuovi attrezzi e macchinari avrebbero reso meno duro il lavoro dei campi. Voleva avere un’azienda agricola sua, un’azienda modello, e una moglie, e dei figli. L’ardire di Adalberto doveva trasformarsi in lui in coraggio e realismo, per un bene comune.

Un tuono in lontananza lo riportò alla realtà: domani sarebbe partito per la guerra.

Si avviò al calesse. Moro scuoteva le mosche dalla criniera, alzava e abbassava una zampa, nervoso.

Lo accarezzò sul collo, il cavallo gli rispose ammusandolo.

Prima di volgersi alla strada del ritorno, abbracciò con lo sguardo la campagna, oltre il canale: un campo immenso si aprì ai suoi occhi: Il temporale avvicinandosi muoveva in onde lunghe i papaveri e il grano, che si intrecciavano e si lasciavano come in un gioco amoroso.

Stette un poco ad osservare le spighe rigonfie, il fiore leggero: rosso, come il sangue.

© GdL

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