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Cultura

UN PRINCIPE PER L’ITALIA

RENATA BALLERIO - 28/07/2017

gattopardoAvremo la libertà, la sicurezza, tasse più leggere: non è un nuovo programma politico ma sono parole che possiamo leggere ne Il Gattopardo. Il principe Fabrizio Salina, proiezione dello scrittore Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa, con distaccato scetticismo e con qualche scivolone nel qualunquismo, fissa nella nostra mente il ritratto di un paese (la Sicilia? l’Italia tutta?), definendolo il paese degli accomodamenti.

A sessant’anni della morte dello scrittore (morì a Roma il 23 luglio 1957, come è stato ricordato anche in commemorazioni di maniera), è quasi un dovere morale rileggere le pagine di quel romanzo. Le dobbiamo rileggere non solo per accostarci all’idea di immutabilità del reale che ci è stata consegnata dal Principe e fissata in quello che è ormai diventato uno slogan sentenzioso e scontato, quasi un mantra sociale, ma per essere trascinati nella stessa sensazione che prova alla fine del romanzo Concetta, siciliana fino al midollo delle ossa: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo.

Certamente l’ estraneità (non sempre consapevole) al mondo è un virus da debellare da cui non si guarisce buttando via il vecchio, come fa Concetta gettando dalla finestra la carcassa imbalsamata di Benedìcò, il cane amato dal Principe di Salina.

Può un romanzo darci gli strumenti etici per non sentirci estranei al mondo? Aveva questi strumenti Tomasi di Lampedusa, che visse la sua vita applicando il valore dell’otium letterario?

Anche se possono sembrare ovvie, sono necessarie due note biografiche sul Principe. Giuseppe Tomasi, erede di una nobile e ricca famiglia palermitana, partecipò sia alla prima sia alla seconda guerra mondiale (per quest’ultima la partecipazione fu breve perché esonerato per gestire – pare – le proprie terre). Viaggiò in Europa, come possiamo leggere negli interessanti racconti in cui osserva i paesi europei con una lente tutta letteraria, scrisse alcuni articoli, ma la sua vita fu caratterizzata da solitudine.

E proprio lui parlò nel romanzo di sornioneria dei loquaci siciliani. Sarebbe interessante parlare anche del rapporto con la madre e con la moglie Licy, studiosa di psicanalisi e apprezzata da Cesare Musatti. Fu un vero studioso e soltanto negli ultimi due anni della vita diventò scrittore.

La storia del rifiuto e successo postumo di Il Gattopardo rappresenta una pagina interessante, anche se nota, della storia letteraria e sociale italiana. Questo romanzo definito e definibile storico-sociale (se amiamo le classificazioni), è certamente un unicum perché sa dare il colore del tempo e soprattutto sa – se riusciamo a liberarci da una lettura unidirezionale – renderci consapevoli anche delle problematiche attuali.

Così leggiamo che assieme alla ricchezza cresceva anche la sua influenza politica e possiamo sorridere al lapsus per cui una certa opera pubblica sarebbe stata inaugurata nel 1961 e non nel 1861.

È un romanzo che affronta la morte ma che sa far pulsare la vita, sorprendendoci e a volte spiazzandoci. Ecco un esempio.

Che orrore! Una fucilata in Chiesa!” Ma che fucilata, Chevalley! Siamo troppo buoni cattolici per fare delle malcreanze simili. Hanno messo semplicemente del veleno nel vino della Comunione; è più discreto, più liturgico vorrei dire. Non si è mai saputo chi lo abbia fatto…..”.

È un romanzo davvero da gustare per rendere omaggio a un grande scrittore e scoprire che si può andare oltre alla conclusione voluta da Visconti nella sua celeberrima trasposizione, in cui gli spari uditi da Tancredi rappresentano il soffocamento di ogni rinnovamento.

Bisogna sempre andare oltre, anche oltre le apparenze come quell’uva tanto brutta da vedere quanto buona da mangiare che Don Fabrizio mangia insieme con Don Ciccio. Nella circoscritta ombra dei sugheri il Principe e l’organista si riposarono: bevevano il vino tiepido delle borracce di legno e… degustavano la dolce “insolia”, quell’uva tanto brutta da vedere ma….”.

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