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Attualità

FAR BENE IL BENE

LUISA NEGRI - 08/09/2017

bluAnche questa estate bollente -e poco fortunata, in realtà, perché accompagnata da eventi di incancellabili violenze umane e naturali- volge al termine. E già si preannuncia mentre scriviamo, nell’improvvisa mutazione climatica, la stagione autunnale; che dovrebbe essere pausa serena tra l’afa di certe impervie giornate e il freddo che cova dietro l’angolo.

È forse anche per queste ragioni meteorologiche che l’autunno è momento di bilanci. Proprio come lo è la stagione di chi si trova ad aver già percorso i due terzi dei gradini della propria vita, avviandosi, dopo alti e bassi, all’ultimo tratto. Pausa anche questa serena, come vorrebbe la letteratura di maniera. Ma chissà, non sempre può essere così.

Ho ormai sessantasette anni. Cerco di guardarmi da lontano con distacco, mi piace immaginarmi come una formica sotto il cielo della mia piccola città. E spero di potermi continuare a osservare, da presbite, quale ormai sono, senza perdermi di vista: mentre attraverso in serenità la piazza principale, ai piedi della torre massiccia e squadrata del Loreti, così bella contro il cielo cobalto, accanto alla fontana gorgogliante, ricca di acqua, che attrae i bambini di oggi -anche i miei nipoti- come attraeva me, anni fa. O mentre percorro i vecchi, cari portici che da sempre ospitano i commerci della nostra ‘bottegaia” città: un merito questo. Non una colpa come qualcuno vuol far credere. Perché bottega significa tradizione, concretezza, solidità che guarda al domani.

Io sono nata qui, dove sono cresciuta e continuo a vivere.

I miei genitori, lui per metà lombardo e per metà piemontese, lei figlia di una svizzera e di un romagnolo -chiamato dalla provincia ravennate a dirigere la dogana di Luino- proprio in questa città si erano incontrati e piaciuti. Tutti e due lavoravano nella sede della Banca Commerciale, allora via Verbano, oggi via Marcobi: si conobbero così e si innamorarono. Ma dovettero attendere che la bufera della guerra cessasse e mio padre, spedito prima in Albania, poi in Sicilia, tornasse a casa.

A mia madre toccò anche il dolore della morte in guerra del più giovane e bello dei tre fratelli. Una tragedia mai cancellata.

Poi la guerra un bel giorno finì, come era cominciata.

Il boom produsse anche qui lo sviluppo e l’orgoglio di una crescita che alla piccola città dava il senso dell’appartenenza a un mondo più grande, più moderno, dove “riscattarsi” dalla modesta etichetta di città di provincia. Lo dico perché ho ancora ben in mente certi sorrisetti di alcuni docenti universitari – loro sì modesti- nell’udire la provenienza degli studenti come me, nati in provincia. Da loro ritenuta sinonimo di cultura “bassa” e borghese.

Nel tempo ho imparato che le piccole città, come i suoi abitanti, possono avere, anzi dev’essere proprio così, radici anche più nobili e solide che nelle metropoli. Non solo per concretezza di vita, nata da una quotidianità necessaria, meticolosa e testarda, ma proprio per radicamento di una cultura autentica. Perché a forgiare i caratteri e le menti, nelle realtà di provincia, sono gli stretti rapporti di solidarietà e collaborazione, di sofferenza e amore che connotano la quotidianità. Lo stare insieme, la convivialità del mangiare lo stesso pane, a gomito a gomito, l’amare le stesse persone, o abitare gli stessi paesaggi sono da sempre il nutrimento dell’oggi e il collante della storia di domani.

Con questa convinzione ho amato e amo ancor più la mia città, anche se nel tempo mi ha spesso delusa. Perché l’ho vista vittima dei lacciuoli di una politica sterile, fine a stessa più che alle necessità dei suoi elettori: le difficoltà di un intero Paese, legate anche a quelle internazionali, hanno toccato e intaccato non solo le metropoli, ma anche la felicità e la bellezza serena delle nostre piccole patrie italiane.

La ricaduta negativa ha dunque colpito ampiamente anche noi, pur inseriti in un tessuto vitale del Sud Europa gravitante attorno al territorio del capoluogo lombardo.

Oggi uno dei problemi principali della politica locale (ma non solo locale, lo vediamo ogni giorno) ė in buona parte legato a un difetto di comunicazione, all’ incapacità di parlarsi che rischia di smorzare e mortificare quotidianamente la ripresa di un Paese, nel complesso voglioso di sbrigliarsi e darsi da fare, e della sua gente che avverte un gran bisogno di uomini di buona volontà.

Le promesse sostenute in passato dall’entusiasmo ingenuo di molti per una Lega del “ghé pensi mi”, si sono infrante anche da noi sugli scogli di un impegno locale miope, incapace di elevarsi perché imprigionato da un’ ideologia principalmente interessata alle beghe di partito e allo scadente nutrimento di folcloristiche e populistiche aspirazioni, ammollate negli slogan del qualunquismo.

Abbiamo voltato pagina con determinazione. Perché così desideravamo in tanti, perché avevamo visto che la nostra città, arroccata nel suo egoistico feudo, negli anni aveva perso, oltre che troppo tempo, lo smalto della bellezza e lo spirito della competizione, oltre che la dignità di un abito ordinato.

Ci siamo riusciti, in molti ci hanno messo la faccia, anche questo giornale lo ha fatto.

Le battaglie testarde di Zanzi e di Varese 2.0, lo ricordiamo e lo rivendichiamo, sono passate anche da qui.

Ora il desiderio è che quella necessità di collaborare e lavorare tutti insieme sia trasformata da chi ci amministra in lodevole concretezza. La gente guarda, prende nota dei miglioramenti già attuati -uno per tutti la ripartenza della nostra amata funicolare- e attende i grandi progetti annunciati, così come le piccole novità.

Ma di fronte a certe recenti scelte non riesce a capire. Noi stessi -ma anche quanti di voi lettori? – abbiamo raccolto, senza neppure essercele andate a cercare, tante voci di delusione: sono negozianti e commessi, professionisti, medici e dipendenti dell’ospedale Del Ponte, bancari e impiegati pubblici, pendolari e molti altri. Stiamo parlando della decisione di allargare la fascia dei parcheggi a pagamento. Che non si tratta di banalità o quisquilie.

L’asfalto, più che il cielo, a Varese è sempre più blu: un blu illiquidito e dilagante. Le multe fioccano ovunque: come ovunque sono gli ausiliari, davanti agli ospedali, alle chiese, vicino alle stazioni, al Sacro Monte. Mentre raramente si incontra un vigilante nei parchi pubblici e nei luoghi critici dove si vorrebbe più controllo per gli anziani, le donne, i bambini.

E i varesini, che già pagano discrete tasse, si sentono perseguitati dalle multe e vessati dai balzelli onerosi della sosta blu allargatasi a macchia d’olio. È argomento, anche questo delle contravvenzioni, sulla bocca di tutti.

Si replicherà: quando si impongono le regole nessuno ci sta. Ma ci permettiamo di dire: le regole sarebbero molto più amate e rispettate se non fossero accompagnate per esempio da multe salate e assurde (come quelle inflitte ai frequentatori degli eventi culturali sacromontini) e se venissero spiegate e motivate, ancor meglio se su di esse ci si confrontasse a priori: perché riguardano un’ intera città e ogni suo cittadino, insomma la nostra quotidianità. Ma si rivolgono in più anche a chi viene da noi per ragioni turistiche o commerciali. E infine anche per necessità, e amore di libertà, in cerca di aiuto e accoglienza.

Compito dell’amministratore, ci sembra di poter dire, è di sedersi a tavola per condividere lo stesso pane coi suoi concittadini, cioè per capirsi e lavorare bene nel bene.

Perché “il bene va fatto bene”. Lo diceva madre Teresa di Calcutta, non una qualunque certo, anzi un Nobel per la pace e una santa. Ma, ieri, solo una piccola donna assetata di amore.

Sicuramente ha dimostrato di saper essere una grande manager, votata a lavorare, a organizzare, ad amministrare in spirito di servizio: la rete internazionale da lei creata conta oggi 750 case di sostegno ai fratelli del mondo. Fu dunque una buona amministratrice.

Per tornare alla nostra città, aldilà della discussione sui dettagli tecnici degli ultimi provvedimenti comunali illustrati anche nell’intervento dell’assessore Civati ai nostri lettori, risulta fondamentale, qui e sempre, l’opportuna comunicazione e collaborazione tra amministratore e amministrati.

Personalmente spero di avere ancora il tempo di vedere la mia città più bella che mai, pulita e ordinata, con strade e marciapiedi rifatti e non rappezzati, guarita dai tanti e lontani problemi che tutti conosciamo. Dotata al più presto di piste ciclabili, come promesso. E stupita da altre sorprese, che, ci si dice, arriveranno.

Perché Varese ritorni ad essere fulgida e ospitale, pronta ad accogliere chi la cerca e la vive quotidianamente con volto sorridente.

Io credo nelle capacità e nella buona volontà di chi ci governa, già dimostrate.

Ma credo anche che Varese, città nobile, città libera di mente e di cuore, prima città del Risorgimento ad alzare la testa, si aspetti e meriti ancora ogni bene.

Per i nostri giovani, come per chiunque cerchi qui la conferma di un buon vivere.

E anche per i giovani di un tempo. Che, con passo prudente, tornano a cercare la loro anima dispersa tra le strade di periferia e i portici nel cuore della città.

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