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Attualità

LA RAI CHE NON CAPISCE

CESARE CHIERICATI - 15/09/2017

vueltaHa vinto Froome, ha vinto Nibali (secondo con sorte avversa), ha vinto soprattutto Alberto Contador e ha perso pesantemente solo la Rai. Una sconfitta su tutta la linea quella del servizio pubblico perché i suoi dirigenti sportivi e no continuano a non capire che il Giro di Spagna da anni ormai è la corsa a tappe più affascinate, divertente ed esplosiva del mondo. Continuano a non capire o a far finta di non capire che le gerarchie tra i tre grandi giri si sono ribaltate e che il Tour viaggia oggi in terza ruota – anche il Giro è meglio – vittima del suo stesso gigantismo, degli interessi dominanti degli sponsor, di una selezione delle squadre ammesse spesso molto discutibile per non dire assurda. Detto questo sarebbe tuttavia inconcepibile non trasmetterlo, non “coprirlo” mediaticamente come si dice in gergo, ma altrettanto inconcepibile è oggi come oggi ignorare la Vuelta sia nelle dirette sia nei resoconti dei Tg sportivi e di Raisport. Solo qualche risicata notizia e qualche stiracchiata immagine se a vincere o a mettersi seriamente in luce era qualche pedalatore italico. Come a dire: se noi della Rai, “i più migliori” del reame non siamo presenti significa che la manifestazione non esiste o quasi. Siamo noi a nobilitarla non il contrario.

Se non si voleva spendere bastava allestire uno studio con un paio di giornalisti a seguire la corsa dal tubo cioè dal monitor, né più né meno quello che fa da anni Eurosport, senza i salotti, i falsi dibattiti, le liturgie mediatiche che dilatano oltre misura i pomeriggi post tappa del Giro d’Italia. È davvero sorprendente e difficile da comprendere per quale oscura ragione a primavera si è dato spazio al Giro del Qatar, a quello del Quebec e a qualche altro tour minore, ma siamo fiduciosi in qualche altra pensata.

Le scelte di Viale Mazzini hanno comunque lasciato a bocca asciutta tanti appassionati delle due ruote, il sovranismo editoriale del servizio pubblico ha costretto migliaia di persone a chiedere asilo ciclistico al canale europeo per antonomasia, spesso non trovandolo perché nella giungla del digitale terrestre e del satellitare non è esattamente un gioco da ragazzi riuscire a sintonizzarlo.

Chi ha potuto seguire la Vueltà si è ritrovato davanti agli occhi un ciclismo scintillante tutto giocato all’attacco, sull’improvvisazione, sul coraggio e non sull’attesa consumata ad altissima velocità e pilotata via radio dalle ammiraglie delle squadre meglio attrezzate. Neppure la potentissima Sky di Froome, il Real Madrid del ciclismo, è riuscita a cloroformizzare la Vuelta pur determinandone in misura rilavante gli esiti. Perché è vero che si tratta di uno sport individuale ma è altrettanto vero che senza una squadra solida è oggi molto difficile andare lontano. Lontano ci è andato in ogni caso Alberto Contador all’ultimo atto di una fantastica carriera. Domenica scorsa è ufficialmente entrato nel ristretto Olimpo dei grandi assi del passato con il suo opulento palmarès nelle gare a tappe: due Giri d’Italia, due Tour de France, tre Giri di Spagna e altri nobili piazzamenti.

Se non fosse incappato in una disavventura intestinale durante la prima non irresistibile ascesa a inizio Giro (costatagli una manciata di minuti) probabilmente avrebbe vinto la sua quarta Vuelta perché in salita, a trentacinque anni, non è ancora secondo a nessuno, ma il primo indiscusso attore è stato lui. Ha interpretato strada facendo un copione straordinario fino all’atto conclusivo sull’Alto de Angliru, un’erta micidiale, un calvario di pendenze ancor più ostico dell’ostico Mortirolo. Su quelle rampe ha compiuto un’impresa sportiva leggendaria, ha scritto coi pedali una pagina di letteratura epica aggiungendo un indimenticabile capitolo a quel grande romanzo popolare che è il ciclismo su strada. Rai o non Rai.

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