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Attualità

SCUOLA/1 SPERANZA

EDOARDO ZIN - 15/09/2017

primogiornoAnche il più piccolo dei miei nipoti è entrato nel mondo della scuola. A me è mancata – purtroppo – la fierezza del nonno, desideroso di accompagnarlo mano nella mano fino al portone. Me lo vedo nella stradina che costeggia la piccola scuola privata di un delizioso paesino della Savoia mentre corre incontro ai compagni o, muto e intento, ad ascoltare la maestra.

In tutto il mondo il primo giorno di scuola è diventato una data festiva: davanti ai portoni delle scuole c’è trambusto ed un groviglio di abbracci fra compagni che si ritrovano dopo le vacanze. Bimbi, ragazzi e giovani vanno a scuola come ci andavo io, come ci siamo andati tutti, scoprendo e amando una vita che comincia a nascere, crescere e svilupparsi.

C’era una volta, non molti anni fa, una scuola davvero memorabile in cui si studiava sul serio, con professori e maestri bravissimi o almeno severi quanto occorreva per obbligare scolari e studenti a quello che era un loro preciso dovere: imparare. La gioia, il piacere, l’interesse derivavano da questo desiderio di conoscenza.

Oggi i tempi sono cambiati. Ed è giusto che sia così. Dapprima, la televisione ha portato il mondo in casa, successivamente l’innalzamento dell’età dell’obbligo scolastico ha allargato la scuola a ceti sociali fino ad allora sommersi, la cosiddetta partecipazione democratica ha portato le famiglie a condividere il governo della scuola, ultimamente le nuove tecnologie hanno fatto aumentare le conoscenze, hanno modificato mestieri e professioni e trasformato tempi e modi della produzione nel mondo del lavoro, valori, che fino a poco tempo fa cementavano lo stare assieme, oggi sono sempre meno condivisi.

Anche la scuola è cambiata, ma non può cambiare il suo ruolo fondamentale: educare i giovani, attraverso l’insegnamento e l’apprendimento, ad essere uomini e donne in tutte le loro singolari ed irripetibili potenzialità ed in tutta la loro integralità. Qualsiasi scuola, anche la più asettica, educa in quanto istruisce. In un tempo in cui il nostro pensare è esangue e sbiadito, il nostro parlare vuoto e scipito, il nostro agire scialbo e infruttuoso, affidiamo alla scuola i nostri figli e nipoti con la speranza che essi diventino protagonisti di una società migliore.

Li affidiamo alla scuola con la speranza che li educhi suscitando in loro passione per tutto ciò che li circonda, per l’ interesse per quanto viene conosciuto, perché siano capaci di porre domande, di sforzarsi per trovare risposte in modo che dal piacere del gioco passino al piacere per lo studio, che è per loro il primo lavoro. Il lavoro costa e dura, ma forma il carattere, esige sacrificio. Per troppo tempo abbiamo confuso la scuola gioiosa con la scuola compiacente. Nel bambino, come nell’adulto, la gioia nasce quando riesce a compiere un gesto nuovo, quando adempie a una nuova responsabilità, quando ha davanti a sé un adulto che diviene per lui punto di riferimento. Questa gioia inconsapevolmente il piccolo la trasmette all’adulto quando questi è attento alle nuove conquiste di chi è affidato alle sue cure.

Li affidiamo alla scuola con la speranza che siano inseriti in una tradizione culturale. In una società in cui tutto ci porta a innovare, riformare, rottamare piuttosto che a conservare, vorremmo che la scuola tramandasse ai figli la cultura dei padri, la storia del paese perché le eredità del passato non si conservano tanto nei musei o nelle biblioteche quanto nelle istituzioni scolastiche. È il passato che ci fa comprendere il presente e preparare il futuro. Ed è il passato che infonde le ragioni per una coesione spirituale e di identità culturale.

Li affidiamo alla scuola con la speranza che non trasmetta solo una cultura fatta di nozioni frammentate, di formule astruse, di dati astratti, di regole, ma anche di amore per il bello, per la cura delle città e dell’ambiente, per qualche momento di silenzio, per uno stile di vita più sobria. Vorremmo che la scuola coltivasse nei giovani lo stupore per un bel tramonto, l’incanto per un prato in fiore, la bellezza per la contemplazione dei colori di un’opera d’arte. E accanto alle canzoni di Lucio Dalla, di Battisti, di Venditti, della musica rap o reggae vorremmo che si sorprendessero all’ascolto di una suonata di Bach o si entusiasmassero nel cantare assieme una musica popolare e non solo canzoni – anche se ragguardevoli – che provengono da oltre atlantico: anche questi sono canali di conoscenza che rivelano segreti dell’essere e dell’esistere sconosciuti alla scienza e alla tecnica.

Li affidiamo alla scuola con la speranza che in essa trovino insegnanti che lascino un “segno”, maestri che non insegnano quello che vogliono o che quello che sanno, ma quello che sono. Docenti che trasmettono, più che nozioni, la loro sapienza: testimoni che, pur oberati da impegni eccessivamente burocratici, sono capaci di spendersi, con la lealtà di quanto insegnano e con il disinteresse dell’amore, per portare bambini e adulti a loro affidati alla completa maturità d’uomo. Vorremmo che scolari e studenti trovassero nei loro maestri (da: “magis” = di più) l’autorevolezza che compete loro perché la riluttanza ad esercitarla li lede nell’autentico diritto di apprendere. Se l’autorità morale della scuola è scaduta, ciò è dovuto, oltre all’incapacità dei governanti di attuare serie riforme non di facciata, ma di sostanza, anche a tanti venditori di lassismo cui non è stato sbarrato in tempo l’accesso a una professione che è tra le più delicate e difficili del nostro tempo. I risultati del permissivismo sono ormai evidenti: ragazzi e giovani insicuri (e spesso arroganti), fragili, prepotenti. La formazione di un uomo dipende spesso da un “sì” o da un “no” detto da educatori autorevoli.

Li affidiamo alla scuola con la speranza che essa proponga loro, attraverso la condivisione di regole comuni, il valore di stare assieme oggi nel reciproco rispetto per formarli a essere un domani partecipi alla vita dello stato democratico. La scuola che educa a pensare criticamente forma cittadini liberi, capaci di scelte che non cedono alla tracotanza arrogante di chi calpesta la logica o al canto delle sirene che affascinano con l’inconsistenza delle ciance.

Li affidiamo alla scuola con la speranza che le famiglie di antica formazione e quelle di nuovo genere non si frappongano tra di loro e gli insegnanti, soprattutto quando gli insuccessi scolastici dei figli sono gravi e l’impegno scarso. Denigrare la figura dell’insegnante davanti ai figli, magari in complicità con loro, presto o tardi si ritorce contro.

C’era una volta una scuola come la speriamo oggi. Sembra, invece, che la scuola sia divenuta un’ossessione per docenti e discenti, tutti dipendenti dai programmi, dai POF, da un sistema che ingloba chi insegna e rende vano l’insegnamento. La speranza non è utopia, è “quel tanto di spirito in più”, come si esprime Paul Valery, di cui tutti abbiamo bisogno perché tutto sia di nuovo possibile: nulla è irrimediabilmente perduto.

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