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Il Mohicano

IL MIO “CHE”

ROCCO CORDI' - 13/10/2017

ernesto-che-guevaraLa notizia della morte del “Che” l’apprendemmo, come tante altre, alla radio. Allora non c’erano i social ed anche la tv era un lusso. Ernesto Guevara, detto “Che non sapevamo neppure chi fosse, né conoscevamo la storia vittoriosa dei “barbudos”cubani, guidati da Fidel Castro, in un’isola così distante e minuta da apparire quasi invisibile anche sui libri di gerografia.

Eravamo ancora troppo giovani per avere una “visione del mondo” che ancora ci appariva in gran parte sconosciuto. In quell’ottobre del 1967 avevo appena compiuto 18 anni e per la legge ero ancora un minorenne, allora lo si diventava a 21.

Per me era appena cominciato anche l’anno scolastico utile a conseguire la maturità.

Lo sguardo cominciava a dilatarsi ben oltre l’angusto versante jonico calabrese in cui vivevo e la voglia di conoscere e diventare “maturo” cresceva con intensità sempre maggiore.

Gli stessi eventi di quell’anno si incaricavano di sollecitare consapevolezza e presa di coscienza già “attivati” dalle condizioni di povertà e arretratezza in cui vivevamo. Ricordo lo scandalo Sifar (e la destituzione del capo di stato maggiore dell’esercito, generale De Lorenzo, per complotto contro lo Stato), la “guerra lampo” degli israeliani con l’occupazione del Sinai, il colpo di stato dei colonnelli in Grecia, l’escalation della guerra in Vietnam, le prime occupazioni studentesche…

La notizia della morte a soli 39 anni del “Che” e la contemporanea scoperta della rivoluzione cubana mi spinse a cercare informazioni e testi quasi introvabili perché il sistema informativo era tutt’altro che plurale e trasparente. Neppure la stampa di sinistra, anche quella comunista che leggevo saltuariamente, era molto generosa con i movimenti rivoluzionari. Solo qualche anno più tardi avrei capito il motivo. Il “Che” era considerato un eretico, un personaggio anomalo, cioè non riconducibile dentro gli schemi del mondo diviso in blocchi e dalla conseguente politica detta della “coesistenza pacifica”. Per lui l’obiettivo primario era la lotta contro l’imperialismo e il giogo coloniale.

Non a caso dopo la vittoria cubana dopo aver rinunciato alla carica di ministro e agli agi concessi ovunque dalle posizioni di potere, continua il suo impegno partecipando alla organizzazione e alla lotta di altri movimenti rivoluzionari in Africa e in America latina finiti anche malamente.

Per me il fascino esercitato dal “comandante” Guevara, prima ancora che si creasse il mito, le magliette e tutta la ben nota iconografia commerciale, era fondamentalmente basato sull’esempio di quel giovane medico argentino che rinuncia a tutto, fino a mettere in gioco persino la sua vita, per affermare un’idea di liberazione umana tutt’ora valida.

Sono ormai trascorsi 50 anni dal suo assassinio. La sua immagine ha attraversato tante generazioni e ciascuno ne ha interpretato a modo suo azione e scopi.

Ma se il suo fascino è ancora vivo dipende innanzitutto dal fatto che le ingiustizie del mondo non sono cessate e che di fronte ad esse resta valido il suo incitamento a non piegarsi, a non restare prigionieri della rassegnazione e della sfiducia, a lottare. Ed anche quando la lotta risulta vincente è proprio in quel momento che occorre saper sfuggire alla deriva del potere.

In una lettera ai figli Guevara scrisse: ”Dovete sentire  profondamente l’ingiustizia subita da chiunque in ogni posto del mondo “.

Ecco aldilà del giudizio che si può dare sul modo concreto in cui lui tradusse questo “sentire”, il senso più profondo del suo impegno resta valido ancora oggi.

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