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Noterelle

LA MISSIONE

EMILIO CORBETTA - 13/10/2017

Jacopo Bassano. L’ultima cena

Jacopo Bassano. L’ultima cena

Prima gli adulti, poi per ultimi mangiavano i bambini.

Ero capitato lì quasi per caso, in un angolo d’una regione tropicale africana, col desiderio di dare un maggior significato al mio mestiere. Le esigenze sanitarie, le necessità in quei luoghi sono infinite e vanno ben oltre il settore di una specialità che volentieri travalicavo. In questo modo davo retta ai consigli di un collega mio amico che mi ripeteva con una certa costanza, da quando stavo imparando a far lo stregone: “Si siamo specialisti, ma prima di tutto siamo medici”. Quello d’aver fatto il curriculum di studi per essere prima medici e poi specialisti, pur comportando un sacrificio di tempo, crea figure più complete nella loro preparazione, piuttosto che il partire con studi specialistici ed indirizzarli poi in aperture sui vari settori.

Ritorniamo al nostro angolino tropicale. Un giorno suor Alba, l’infermiera della Missione, dovette organizzare una spedizione per raggiungere un “accampement,” lontano nella foresta, per far le vaccinazioni ai bambini. La più importante è sempre quella contro il morbillo, causa di morte per encefalite virale nei confronti della quale i bimbi africani sono particolarmente fragili. Il morbillo è una patologia portata dagli europei con l’occupazione coloniale dei secoli scorsi. Ne abbiamo portate altre e ricevute alcune. Il consorzio umano ….

Dopo un lungo percorso su una pista molto accidentata, che minacciava continuamente il ribaltamento del mezzo, si giunse in una radura nella foresta, con una sola costruzione di legno con pavimento in cemento e tetto in lamiera, che fungeva da magazzino, e contemporaneamente da aula scolastica e da moschea. Qualche altra capanna dalle pareti incomplete (quasi impossibile riuscire a realizzare pareti di fango, unico materiale edile utilizzabile, ma fragilissimo nei confronti dei violenti acquazzoni della stagione delle piogge) e solo tettoie di paglia o foglie di palma. Sotto una di queste tettoie, un po’ più ampia delle altre, ci misero a far le vaccinazioni, mentre dalla moschea giungeva il cantilenare dei bimbi che stavano imparando a memoria il Corano. Dai sentieri della foresta confluivano le madri con i loro piccoli. Figure ricoperte da teli monocromatici dai colori intensi, che vivacemente spiccavano contro il verde cupo delle pareti arboree della radura.

Quello che mi colpì fu l’analfabetismo di queste eleganti donne, totalmente incapaci di misurare le stagioni ed il tempo. Non sapevano assolutamente dire quando era nato il loro bimbo: era nato e basta. Nel contempo però erano ben consce del valore della vaccinazione, che dava la possibilità, anche se parzialmente, d’assicurare il raggiungimento dell’adolescenza al loro figlio, che ci appariva spesso portatore di dermatiti acquisite dal dormire sulla nuda terra, più altre patologie come la malaria ed altre parassitosi. I farmaci portati si esaurirono velocemente. Difficile dare norme d’igiene.

Veramente angosciante la povertà del luogo, pur bellissimo nel trionfo della vegetazione.

Si lavorò per tutta la mattina fino al primo pomeriggio, quando il capo villaggio, iman del sito, ci ringraziò con un profondo inchino e si scusò per l’impossibilità di monetizzare il nostro lavoro; poteva solo offrirci un pranzo consistente in un grande catino di riso bollito e pezzi di pollo cotti in un secchio, in cui galleggiavano peperoncini minacciosamente piccanti. In aggiunta qualche banana raccolta nella foresta. L’assenza di posate mi impediva di portare il riso alla bocca: si sperdeva sui miei pantaloni, mentre il pollo non era masticabile in quanto sacrificato qualche minuto prima di essere sottoposto a cottura.

Avanzammo molto cibo che non fu consumato con noi. La loro educazione impediva di sedersi e mangiare con gli ospiti, considerati importanti. I primi a consumare quanto avanzato furono gli uomini adulti, i forti, gli importanti. Seguirono le donne adulte, poi i vecchi maschi, poi le vecchie ed infine i bimbi: non c’era quasi più nulla. La logica del branco … prima i forti, poi i deboli. Assenza assoluta della cultura di dividere fraternamente il cibo in un pasto comunitario. In effetti il rito di dividere consensualmente il cibo crea il salto della qualità dei rapporti che intercorrono nei costumi di una comunità, di una società. Non c’è molto d’andar lontani nel tempo, anche in Europa ….

Il cibo, elemento così importante nella nostra vita, condiziona molto la qualità della cultura di una società, acquisendo diversi significati, politici, sociali ed anche religiosi. Nelle culture antiche, il banchetto diventa spesso sacrificio agli dei.

Dividere il pane in un consesso è simbolo di amore tra i commensali; significa non più competizione per averlo, non più un arraffarlo, un accumularlo tutto per sé, ma fraterna condivisione comunitaria del dono del pane quotidiano, necessario per la vita. Nel Vangelo sono frequenti i momenti di condivisione del cibo, quindi condivisione d’amore. L’ultima cena è il culmine, diventa il momento fondante della preghiera cristiana in cui lo spezzare il pane è il momento dell’offerta massima che il figlio di Dio, fatto uomo, può fare per amore: offrire la cosa più sacra e preziosa che ha, la vita, sempre prima difesa. La vita data per amore! Ma dove è l’utilità di quel dono? Che cosa scaturisce dopo? Semplice: la Resurrezione … mica tanto semplice, mica tanto facile comprendere questo immenso evento. Più facile spiegarci perché la religione cattolica ha come fondamento della sua preghiera il condividere cibo consacrato, entrato nel trascendente, che lega in fraternità i fedeli.

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