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Stili di Vita

L’ARTE DI SOTTRARSI

VALERIO CRUGNOLA - 20/10/2017

epittetoCome si è visto nell’articolo precedente “Prenderla con filosofia”, 6 ottobre 2017), la filosofia per Epitteto non è un esercizio libresco, ma una «scelta fondamentale» [proairesis] che guida le varie attività dell’anima: desiderio, tensione all’agire e giudizio. Insegnamento ed esercizio, conoscenza e applicazione sono tutt’uno.

Nessun essere vivente è predisposto per la felicità, per conseguire il bene e ogni altro adempimento o obiettivo. Già Seneca aveva ammonito Lucilio che la vita non è propriamente un giardino delle delizie. Nemmeno è però un inferno che provoca solo infelicità, dolore e turbamento. Di per sé il mondo è neutro, è un fatto. Le cose accadono: ma non accadono «per me». Il nostro «star bene» non dipende dal mondo ma da noi stessi e dal buon uso della nostra libertà.

A propria volta la libertà è l’adesione consapevole a un indirizzo di pensiero che ci pone al riparo da scelte nocive. Nulla è d’ostacolo a una saggia scelta di vita se non una scelta di vita corrotta. La vita si presenta come un conflitto permanente tra scelte virtuose e scelte che contraddicono la virtù. Decisivo è il controllo sulle proprie rappresentazioni, che si profilano in noi per effetto e in vista dell’agire.

Per Epitteto e in genere per lo stoicismo romano la libertà che deriva dal corretto uso della ragione sovrasta le circostanze e il condizionamento dei tempi e neutralizza, depotenzia sia le une che l’altro. Qui torna utile un riferimento storico. L’estinzione dei valori repubblicani ha colpito Roma ben dopo la formazione dei regni ellenistici che furono la culla dello stoicismo. Il pensiero di Epitteto si colloca in questo scenario di insanabile frattura tra sfera privata e vita civile: due espressioni moderne, di cui occorre cogliere il senso nel quadro dell’impero romano.

La libera interiorità e un’autorità ad essa estranea sono tra loro incomponibili. Nessun tiranno come Nerone, Vespasiano o Domiziano può incatenare il principio direttivo [hegemonikon] che presiede la libertà delle scelte di vita e fissa le gerarchie della condotta, distinguendo anzitutto ciò che conta da ciò che è indifferente e privo di importanza. Contro poteri così soverchianti ogni ribellione sarebbe inutile e causa di infelicitanti passioni. Davanti a un potere burocratico retto da funzionari pubblici ricchissimi e che si mantiene in vita con un crescente autoritarismo, l’estraneità del saggio rispetto alla sfera politica non potrebbe essere più forte. Il bene è totalmente altrove. Dalla sfera politica non possiamo attenderci nulla di buono. Lasciamolo dov’è, che vada pure per i fatti suoi, in ultima analisi non mi può nuocere. «Resisti e astieniti», insegna Epitteto: nulla ti nuocerà se sarai difeso dallo scudo di una saggia indifferenza.

Ma il principio ha un valore più generale. Il potere esercitato su di noi da altri, istituzionale o individuale, ci rende schiavi di circostanze che non possiamo controllare. La libertà è anzitutto autocontrollo, entro i limiti ben definiti di ciò che davvero è in nostro potere. «Io» e «Mondo» non sono congruenti: io sono il solo mondo che posso integralmente e liberamente abitare. Il mondo esterno che posso accogliere come mio è dato al più dalle persone che condividono le mie stesse scelte, unite dal medesimo stile di vita. Ma di certo io non sono le cose o gli altri che costituiscono il mondo che mi circonda, né lo sono le mie emozioni o passioni, o gli obiettivi che le circostanze sembrano impormi. Solo la mia libertà ha forza costrittiva.

Il riferimento al singolo «Io» non tragga troppo in inganno. Epitteto è un caposcuola, e in ogni scuola del mondo antico gli individui si piegano al magistero del filosofo che hanno scelto come guida. Qui incontriamo un limite nella trasferibilità dell’insegnamento antico all’individuazione che caratterizza noi contemporanei: le norme di vita impartite dalla scuola non prevedono varianti individuali, perché ovunque si presume che solo un certo grado di sottomissione a un modello e a un complesso di norme offra la garanzia di raggiungere quella libertà e quella saggezza che ogni scuola addita. Quello che muta, semmai, è il percorso di ammaestramento, di accostamento e di esercizio alle norme di condotta della scuola, e alla loro maggiore o minore flessibilità rispetto alle circostanze.

Un indirizzo morale come quello di Epitteto porta i seguaci a ricercare come unico bene la pace interiore e ad accantonare l’abbrutente esaudimento dei desideri e la ricerca dei beni e dei piaceri materiali connessa ai desideri, che sono causa di turbamento, inquietudini e disordini interiori ed esteriori.

L’unica autorità che il saggio stoico riconosce è il logos, la razionalità impersonale divina che impronta di sé il cosmo. Il logos appartiene a ogni uomo, quale ne sia la condizione, e questa condivisione fonda un vago disegno cosmopolitico: la guida della ragione che è in ogni uomo è in grado di superare le piccole patrie territoriali, i costumi, le abitudini e le norme vigenti entro i vari ordinamenti politici e civili, e ci porta ad agire come se appartenessimo ad un’unica comunità o società universale. Questo è il senso di un celebre passo delle Diatribe: «Tu sei un frammento di Dio, tu hai in te una parte di Dio. Tu porti ovunque Dio con te, misero, e lo ignori». Uscire dall’ignoranza significa lasciarsi illuminare e guidare dal logos universale. «In nostro potere – leggiamo sempre nelle Diatribe – è la cosa più bella, la più degna di essere ricercata, quella che costituisce la felicità di Dio stesso: l’uso delle rappresentazioni. Farne un uso corretto significa libertà, corso armonioso della vita, fiducia, equilibrio; significa anche giustizia, legge, saggezza, virtù nella sua completezza. Quanto alle altre cose, Dio non le ha poste in nostro potere. Così dobbiamo noi accordarci al giudizio di Dio e abbandonare al mondo le cose che non sono in nostro potere, e, se dobbiamo rinunciare ai nostri figli, alla nostra patria, al nostro corpo, a qualsiasi cosa, rinunciarvi con gioia».

La gioia altro non è che lo stato di beatitudine che possiamo raggiungere con la pratica ascetica del distanziamento dal mondo. Persino in un mondo che rende infelice chi si abbandona ad esso e alle sue logiche (e tale è il mondo romano per chiunque, e non solo per chi nasce schiavo o resta estraneo agli apparati del potere e del privilegio), le persone sagge possono essere più che felici. La felicità è infatti uno stato transeunte, che può facilmente convertirsi nel suo contrario; non così è per la beatitudine, che nulla o nessuno possono insidiare una volta che essa sia penetrata nel fondo dei nostri giudizi, delle nostre rappresentazioni e delle nostre volizioni.

La via verso la gioia è costituita dall’apprendimento di un principio direttivo, che consiste, come già si è detto, nella capacità di disciplinare e governare il desiderio e il suo opposto, l’avversione. Desiderio e avversione, e corrispondentemente la loro disciplina, hanno due versanti: uno attivo e uno passivo. A volte si tratta di fare, altre di evitare. La sottrazione è comunque più rilevante, perché i danni o i mali prodotti da un coinvolgimento reattivo contro qualcosa che è più forte di noi e a cui non possiamo opporci (l’esempio più ovvio è la morte) sono assai più grandi dei beni che possiamo acquisire con l’azione. Non sempre possiamo sperare di ottenere conformemente al bene, mentre possiamo sempre non farci sopraffare da cose che non dipendono da noi, e proprio l’evitare di opporre una inutile resistenza è il modo migliore per esserne risparmiati. Di qui deriva un atteggiamento di raffreddamento preventivo del desiderio, la sua preliminare sottoposizione a una sorta di «sospensione del giudizio» [l’epoché degli scettici]. L’interrogazione esistenziale circa il desiderio non concerne soltanto l’oggetto desiderato, se sia buono o cattivo, ragionevole o dannoso, ma soprattutto il soggetto del desiderio. Devo chiedermi se le cose che sarebbe bene desiderassi, sono alla mia portata. Se non lo fossero, non potrei raggiungerle, il desiderio verrebbe frustrato, il mio equilibrio ne uscirebbe turbato: in tal caso conviene sradicare il desiderio, per sempre o semplicemente differendolo, posponendolo, anche se in sé appare legittimo. Lo stesso momento di valutazione critica riguarda ovviamente anche l’azione progettata per conseguire il desiderio: e, appunto, anche in questo caso il centro della valutazione è l’agente prima ancora dell’azione.

Solo in questo modo potremo sottrarre potere alle cose che con una visione antropocentrica consideriamo un male, riducendole a pura manifestazione della vita, a semplici dati di fatto, e restituirlo a noi stessi, assumendo la giusta postura intellettuale verso le nostre responsabilità.

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