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Storia

COLLINA DEI PRESENTI

GIOIA GENTILE - 27/10/2017

redipugliaFu il contrasto a colpirmi. La calda e luminosa giornata di fine estate, le colline ancora verdi, il silenzio: tutto sembrava suggerire pace. E invece la storia dei luoghi, il loro nome, persino le pietre evocavano guerra. Redipuglia.

Anche le mie memorie familiari mi impedivano di guardare a quei luoghi con il distacco del turista. Lì era stato ferito mio padre, giovane sottotenente dei Bersaglieri, in una delle undici inutili battaglie dell’Isonzo. Poco distante, in una delle tante cavità carsiche dell’Istria, ora pietosamente nascoste da una folta vegetazione – una foiba –, sarebbe stato gettato mio nonno, nell’ ottobre del ’43.

Due alture si fronteggiano: Colle S. Elia, sede del sacrario fino al 1938 e oggi parco della Rimembranza ombreggiato da cipressi, e Monte Sei Busi, una collina di pietra, un’enorme gradinata grigia che sale verso tre croci e custodisce le spoglie di quarantamila caduti; sopra al nome di ciascuno di loro, una scritta in rilievo: Presente. Chi guarda dal basso vede solo un’ infinita teoria di “Presente”. Sulla sommità, in due tombe comuni, riposano sessantamila ignoti.

Non voglio parlare dell’assurdità della guerra che tutto ciò suggerisce. Non vorrei neppure scivolare nella retorica e nel sentimentalismo. Ma è inevitabile che qualcosa si aggrovigli nello stomaco quando si ha la testimonianza tangibile dell’enorme massacro che fu la Grande Guerra, quando si pensa a come devono aver sofferto tutti quei ragazzi. Sensazione che si accentua se si entra nel Museo della Terza Armata, che sorge alla base delle due colline.

“Questa è la ricostruzione di una trincea, ovviamente una delle più confortevoli” spiega la guida. Ovviamente: una strettoia tra due pareti di legno scuro, in cima sacchetti di sabbia, all’interno alcuni primitivi attrezzi. Di norma, le trincee avevano solo pareti di roccia e un fondo di terra e di fango. Le fotografie, a dispetto dei sorrisi esibiti dai soldati per lo scatto, rivelano la natura brulla e pietrosa del terreno, l’assenza di vegetazione. Nelle vetrine, elmetti, armi antiquate, divise, maschere antigas, persino l’antenato del giubbotto antiproiettile: non oso immaginare quanto dovesse pesare e come fosse possibile sopportarlo. Qualche lettera: “Io sto bene, il cibo è buono, il morale alto”.

Per concedere qualcosa alla retorica – che a volte fa bene al cuore – devo riconoscere che quei ragazzi sulla collina sembravano davvero presenti tra noi. Era come se ci accompagnassero, senza più dolore né rancori né paure, solo col desiderio di non essere dimenticati.

All’uscita, il custode ci chiede di firmare il registro e di non farlo come gruppo, ma singolarmente. “Per dimostrare che ci sono visitatori – dice – altrimenti il museo rischia di essere chiuso”. Allora capisco che ciò che mi aveva veramente colpito all’inizio era il contrasto tra tutti quei Presenti e il silenzio, che non evocava pace, come avevo creduto, ma oblio.

E d’un tratto mi ricordo di quella busta marrone che avevo trovato tra le carte di mio padre, dopo la sua morte. Vi aveva scritto sopra, con la sua grafia elegante e chiara: “A mia figlia”. L’avevo aperta: conteneva le lettere che gli avevano inviato i suoi compagni d’armi nel corso di cinquant’anni. Avevo pensato che parlassero delle loro esperienze di guerra, non volevo intristirmi ulteriormente e l’avevo richiusa. Per quarant’anni.

Tornata a casa col desiderio di saperne di più e un inevitabile senso di colpa, sono andata a cercarla e, come in un pellegrinaggio, ho letto una per una tutte le lettere. Non c’era la guerra in quegli scritti, solo qualche fugace accenno ad una ferita in via di guarigione, ad una convalescenza più lunga del previsto. Erano tutte manifestazioni di affetto e di stima nei confronti di mio padre, di dedizione per il corpo dei Bersaglieri e per il Reggimento. Non saprò mai che cosa avevano vissuto quei soldati quando combattevano, perché neppure mio padre ne aveva mai parlato. Però ho capito che cosa aveva voluto lasciarmi: voleva che sapessi che se c’è qualcosa di positivo nelle esperienze dolorose, è il profondo legame di solidarietà che si crea tra coloro che le vivono insieme.

Alla fine ho guardato il tavolo ingombro di carte: tutti, autori e destinatario, uno dopo l’altro erano morti. Ma erano tutti presenti, come i ragazzi su quella collina di pietra.

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