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Il racconto

LA FERMATA

GIOVANNA DE LUCA - 27/10/2017

tramIl suo tram aveva una fermata proprio lì, davanti a quella porta.

Se ne era accorta un giorno in cui, dal sedile, aveva spinto gli occhi oltre il finestrino, nell’attesa che i passeggeri si avvicendassero. Lo sguardo distratto aveva percorso il marciapiede, largo e sconnesso, e si era fermato al portone: di legno giallastro, a forma ogivale, appariva consunto. Due grandi anelli dorati pendevano alla congiunzione dei battenti, e ciò gli conferiva una vaga eleganza.

Ripreso il tram il suo percorso, le era rimasta dentro una strana impressione, una sorta di turbamento, come di una presenza che premesse per rendersi in qualche modo evidente. Quella sensazione era perdurata in lei tutta la sera. Nei giorni seguenti il lavoro d’ufficio l’aveva messa in secondo piano, ma non cancellata. Ma stasera, avvicinandosi quella fermata, una particolare attenzione era scattata in lei.

Ed ecco, il tram si ferma: scendono e salgono i passeggeri, il sole batte sui due anelli dorati. Un uomo entrando dà un colpo forte a uno di essi. E il cuore fa un tuffo, si apre uno squarcio nella memoria…

Da parecchi mesi ormai la tensione in città è diventata insostenibile. Le persone per strada non si guardano negli occhi, si scambiano brevi parole su cose banali quando è necessario, temono di scoprire che le origini, la religione dell’altro sono diverse dalla propria. Vestono in modo anonimo, che niente trapeli delle diverse appartenenze. La sera ormai ci si chiude in casa, non si ricevono più amici, che possono negli ultimi tempi essere diventati nemici.

È sera e Lilia cammina dando la mano a suo padre, attaccata quasi ai pantaloni di lui. Il padre ha fretta, vuole al più presto riparare la bambina: al lavoro è giunta notizia di nuove violenze nella capitale. La voce si è sparsa rapidamente nella piccola città, già da tempo turbata da divisioni e storici rancori che parevano ormai dimenticati. Ma la storia, quella di chi segue interessi di potere e dimentica gli uomini, ha riaperto antiche ferite. Lilia e la sua famiglia appartengono al gruppo minoritario. Stamane il padre ha sentito che, in seguito alle violenze nella capitale, si aggregano in città uomini agguerriti contro quelli come lui. Ora si sentono più forti, e colpiranno.

È andato in fretta a prendere la bambina a casa della nonna: Lilia li ha sentiti scambiarsi poche parole concitate, e ha avuto paura. Ora stringe al petto la sua bambola di pezza, con la forza con cui il padre stringe la sua mano. Mentre camminano, Lilia, che ha sei anni, ricorda un episodio a scuola che l’ha molto turbata. Una mattina stava giocando nel cortile, durante l’intervallo. Giocava con l’amichetta del cuore. Le maestre guardavano. All’improvviso era apparsa la madre dell’altra bambina, aveva parlottato con una maestra, poi entrambe avevano rivolto lo sguardo su di loro: la maestra si era precipitata sull’amichetta e strappandola al gioco aveva detto: “Non devi giocare con Lilia mai più, mai più, capito?”.

A casa, a pranzo, aveva raccontato l’episodio ai genitori, che si erano guardati in un modo che lei non aveva compreso. Poi, alle sue domande insistenti, le avevano detto che quella mamma certo temeva che la sua bambina prendesse la malattia infantile che Lilia aveva da poco superato… Ma la risposta non l’aveva convinta, la maestra aveva detto: “Mai più!”.

Eccoli a casa. Il padre si volta a osservare la strada, entra in fretta. La mamma è dietro la porta socchiusa. Cenano. Come sempre Lilia si ritira nel suo angolo, in camera da letto. Ma stasera lascia una fessura più grande: vuole sentire i discorsi dei genitori.

Mamma e papà parlano uno di fronte all’altra, le poltrone avvicinate, le ginocchia e le teste che quasi si toccano. Parlano a voce bassa, Lilia si sforza di sentire. Non comprende bene le parole, spostandosi un poco vede il volto del padre serio, preoccupato. Deve aver detto qualcosa di molto grave, se la mamma piega il capo, mentre le sue spalle si scuotono come in un singhiozzo. Allora il papà l’abbraccia, Lilia capisce che vuole calmarla, addolcire quanto detto prima.

Sono le tre di notte: all’improvviso Lilia è svegliata da un colpo furioso al portone, cui ne seguono altri violentissimi. La loro è una vecchia casa modesta, con un portone di legno giallastro e due maniglie ad anello. Abitano al primo piano.

Sfondano la porta, salgono gridando la rampa di scale. Tutto accade come in un vortice, Lilia negli anni a venire ricorderà il pianto di sua madre, la voce ferma e dignitosa di suo padre, chiara sopra le grida e gli insulti. Ricorderà le sue braccia, tenere anche in quel frangente, che la mettono in quelle della mamma mentre dice: “Fuggite dalla città”. E, se fa un doloroso sforzo, risentirà una voce agghiacciante che urla, mentre rompe e distrugge tutto con un bastone. “Pulizia, pulizia…”. Lilia non si era mai accorta che la loro casa fosse sporca.

Il tram rimane fermo per un tempo più lungo del solito. Guardando i battenti del portone, Lilia percepisce che tutta la tragedia di quella notte è riassumibile nel colpo di maniglia che aveva squarciato il silenzio: un gesto brutale, uno solo, in un attimo aveva distrutto la sua famiglia.

Dei giorni seguenti la cattura del padre Lilia aveva negli anni conservato ricordi confusi. La mamma si aggirava per casa raccogliendo quello che poteva senza sosta né riposo, nascondeva la disperazione in rari momenti di abbandono nella notte, da sola.

 Aveva contattato un amico, che aveva un carro: una sera egli aveva caricato la donna, la bambina e un baule, per raggiungere un paese lontano, vicino al confine con un altro stato, dove si poteva vivere.

Lo aveva fatto a suo rischio, grave rischio, ma era amico del padre di Lilia. Quando le aveva deposte stremate nel luogo prefissato, aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per avere notizie di lui.

Seduta con la mamma dietro il recinto di un piccolo orto, qualche mese dopo la fuga, Lilia le aveva chiesto se gli uomini cattivi avevano portato via il papà perché la casa era sporca. La mamma l’aveva tenuta stretta sulle ginocchia e con voce pacata ma intrisa di un antico dolore le ava raccontato, e spiegato.

Lilia per molto tempo, dietro il recinto del piccolo orto, aveva scrutato la strada, sperando di veder comparire la sagoma di suo padre. Poi non lo aveva fatto più.

Mentre il tram percorre il viale alberato verso la periferia, Lilia ritorna con la mente agli anni passati dopo le sventure, le tragedie innominabili che avevano insanguinato il suo paese. Poi la storia aveva fatto il suo corso, ma lei pensa che tutto quell’orrore si è solo trasferito altrove, che continua a viaggiare per il mondo. Lilia è una donna ancora giovane, e vive adesso modestamente, in una casa molto simile a quella di allora. Ha un impiego, ha studiato quanto basta, ha qualche amica, e una bellezza ancora fresca.

Già: in virtù di questa Lilia si è trovata, appena maggiorenne, sepolta nel piccolo paese la madre, in un’altra città, in un’altra nazione…

Parigi è bella, a Natale. I boulevards scintillano di luci, canti e voci liete risuonano intorno. Questo mondo ricco, colorato, ignaro, la stordisce. Lilia cammina piano, gli occhi pieni di stelle e vetrine, e l’animo turbato. Le hanno infilato una tenuta elegante, l’hanno truccata e acconciata, i lunghi capelli biondi lucenti e vaporosi. Ora deve procedere mentre la riprendono, per la pubblicità di un profumo. Qualcuno la richiama. No, non quello sguardo, non va bene.

Perché è triste? Non si è tristi a Parigi la notte di Natale, le dice qualcuno. Suvvia, il passato è passato! È giovane, è bella, e adesso lavora per un marchio di bellezza. Bisogna guardare avanti e dimenticare. Dimenticare. Strapparsi le radici. Cosa vorresti ancora, pensa e non dice chi le parla, ora che ti stiamo traendo fuori dalla miseria?

E poi è primavera a Parigi, profuma l’aria e il cielo ha quell’azzurro… Lilia cammina sul boulevard, accanto a un giovane uomo elegante che le propone una piccola parte in un film, le prospetta un meraviglioso, ricco futuro. E Lilia quasi non lo ascolta, ha una canzone nel cuore, una sua vecchia stupenda canzone…

Il giovane uomo la prende a braccetto, la conduce in un celebre caffè, le ordina quello che vuole. E intanto parla, parla: tu non sai cosa puoi avere, puoi fare la modella, hai il tipo di fascino che piace, con noi hai un avvenire assicurato. Lascia stare il passato, aggiunge, i morti sono morti, ora goditi con noi questa pace, sii felice!

Non è cattivo il giovane uomo, e molto ha investito su quella ragazza: ad altri deve rendere conto, il successo delle ragazze che recluta per il mondo della moda è un suo successo. Guardati intorno, dice ancora, ascolta la musica che viena da laggiù. E Lilia ascolta: Ederlezi, Ederlezi*, “sta arrivando la primavera, giglio verde della valle, per tutti ma non per me”, cantava suo padre. E vede volare alte le cicogne, e il boulevard è il lungo erboso sentiero su cui spiava il ritorno di lui. E le strade eleganti sono le sue strade, grigie e smarrite,i palazzi sono le sue case, polvere di periferia, sfiancate dai segni della guerra.

Così Lilia si alza, se ne va senza salutare. Il tram, con uno scossone, la riporta al presente. Il viale è lungo, costeggia il fiume: qualche pescatore, qualche ragazzo, una barca. Come fai, Lilia, le aveva detto un’amica a Parigi, come fai a voler tornare nel tuo paese? Lilia non aveva risposto, l’altra non avrebbe capito.

Questa era la sua terra, questo era il suo paese, lì erano nati e cresciuti i suoi genitori, i suoi nonni e i suoi avi, lì avevano amato, gioito, e sofferto. O sì, quanto sofferto! Troppo. Quante lacrime e sangue l’ avevano bagnata!

Perciò lei non se ne sarebbe andata via da loro, non li avrebbe traditi per quattro lustrini.

Da qualche anno ormai Lilia conduce la sua semplice vita, e coltiva nel cuore una flebile eppur salda speranza di pace.

È arrivata a casa. Mentre impugna la chiave, osserva qualcosa mai notata prima: Il portone ha una forma ogivale, è di legno giallastro consunto e due anelli dorati pendono dai battenti. Lilia ne prende uno, lo solleva e lo fa ricadere sul battente: ma piano, per non farsi male.

 *          Ederlezi è una canzone popolare tradizionale in lingua romaní delle popolazioni di etnia Rom dei Balcani, principalmente in Serbia Il titolo si riferisce alla festività serba di Đurđevdan (Ђурђевдан), chiamata in lingua rom appunto Ederlezi, che cade il 6 maggio e celebra la primavera. Si tratta probabilmente del brano folkloristico romaní più noto al mondo, soprattutto grazie alla versione realizzatane dal musicista Goran Bregović. Ma forse il testo non è suo: pare infatti che sia stato composto sulle tradotte in cui, nel maggio del 1942, prigionieri serbi vennero deportati a migliaia da Sarajevo a Jasenovac, duecento per vagone. È su di uno di questi che qualcuno intonò il dolcissimo e straziante “Sta arrivando la primavera, giglio verde della valle, per tutti ma non per me…”.

N.B. I riferimenti di luogo e di tempo sono volutamente generici.

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