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Attualità

VITA DI POPOLO

MANIGLIO BOTTI - 03/11/2017

Gassman e Sordi nella Grande Guerra di Monicelli

Gassman e Sordi nella Grande Guerra di Monicelli

La prima guerra mondiale nella sua incommensurabile tragedia di morti e di feriti – l’inutile strage, come la definì papa Benedetto XV – fu paradossalmente anche una prova. Oggi la stragrande maggioranza degli studiosi non esita a definirla, almeno per quanto riguarda noi italiani, che lasciammo sui campi seicentomila soldati (e altrettante furono le vittime civili), una prova, un esame di storia per il Paese – il nostro – unificato da poco più di cinquant’anni. E lo si ricorda proprio in questi giorni che fanno seguito alla disfatta di Caporetto del ‘17, esattamente un secolo fa, giorni che però portarono in seguito all’eroica – e forse inimmaginabile – resistenza sul Piave e alla “gloria” di Vittorio Veneto.

Per anni i memorialisti di destra l’hanno definita una “guerra nazionale”, forse l’ultima guerra di indipendenza; quelli di sinistra e di ispirazione marxista una guerra di classe. Ma sul fatto che, per la prima volta, a morire, purtroppo, insieme si trovassero i braccianti del Sud e i contadini del Nord, borghesi grandi e piccoli (più i piccoli che i grandi, cioè la maggioranza), non vi sono dubbi. È così che la guerra ebbe anche un carattere unificatore. Il soldato di Matera o di Catanzaro vedeva cadere accanto o davanti a sé l’ “amico” di Milano o di Bologna. Il compagno con il quale s’era scambiato l’ultima sigaretta.

Vi è stato – sempre a detta degli studiosi della nostra storia e dei nostri “caratteri” – un altro momento che ebbe un significato altrettanto forte di fusione, quando gli italiani davanti alla tv – a seguire spettacoli come Lascia o raddoppia? e il Musichiere e il Festival di Sanremo – scoprirono di essere un Paese con la stessa lingua, gli stessi svaghi, forse addirittura con gli stessi interessi (culturali?), dopo il lavoro ricercato per assicurarsi una casa decente e i denari racimolati per l’educazione dei propri figli. E ciò accadeva quando, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e alla caduta del fascismo prima osannato e poi anche combattuto, l’Italia aveva visto una sua crescita, imprevista, il suo “boom” economico.

Sintetizziamo un periodo: 1946/1963. Sarà stato anche a causa di un fenomeno di migrazione interna che nessun altro Paese europeo aveva conosciuto. Milioni – due e mezzo, forse di più – di persone si catapultarono dal Meridione, lasciando paesi e campagne di origine, alle fabbriche del Settentrione, contribuendo a un grande sviluppo, forse confuso ma pur sempre sviluppo. Saranno stati aiuti esteri e una politica di bassi salari. Sarà stata la capacità di politici avveduti che indirizzarono l’Italia su una strada atlantica e democratica piuttosto che su altre vie, nonostante forti e contrastanti spinte. Sta di fatto che uno sviluppo vi fu. E il Paese si trovò unito.

Nel 1959 gli italiani videro nelle sale cinematografiche un film importante – il cinema, la letteratura e la poesia, anche la canzone non sono mai estranei alla vita – come la Grande guerra, di Mario Monicelli, che non era di sicuro un regista agiografico e celebrativo, e si commossero. Applaudirono. C’è un’immagine emblematica, in quel film, quando nei giorni della disfatta di Caporetto (oggi Kobarid in Slovenia), le avanguardie tedesche che avevano sfondato il fronte italiano tolgono da un crocevia una targa stradale con l’indicazione Venezia, e ne mettono un’altra: Venedig, 175 km. Come a dire: stiamo arrivando.

Beh, quella scena metteva il magone ai giovani di allora che poi non erano stati certamente chiamati a difendere “il suolo patrio” sul Piave. Lo avevano fatto i loro nonni. Non credo ci fosse risentimento nei confronti di un “nemico” che – bene o male – lo si trova sempre, ma il sentimento di un volere esserci, di essere utili con gli altri per costruire o ricostruire qualcosa insieme. Nel caso l’Italia, che stava per essere colpita in una delle sue città più belle, forse la più bella di tutte.

La domanda è questa: quella stessa scena oggi farebbe commuovere lo spettatore e lo farebbe ancora applaudire? Viene da chiederselo. È difficile trovare delle risposte e proporle senza rischiare di essere presi per stupidi o addirittura guerrafondai.

L’italiano è un popolo strano: dipende dalle condizioni, dal suo stato d’essere reale o percepito, pronto a scannarsi con la pancia piena ma a darsi una mano, a essere solidale, nei momenti di maggiore difficoltà, quando tutto sembra cadere nel baratro.

Viene in mente, a proposito di fatti recenti, anche politici o – appunto – percepiti come tali, l’incipit di un romanzo famoso, una pietra miliare del nostro Risorgimento; le Confessioni di un ottuagenario, di Ippolito Nievo. Non è un attacco famosissimo come “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…” o addirittura “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”. Ma è un incipit che è – o lo è stato – patrimonio ideale per generazioni.

Nelle Confessioni, Nievo fa subito dire a Carlino Altoviti, il protagonista del suo romanzo, queste parole: “Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo…”. Ippolito Nievo, che era di Padova, le scrisse centosessant’anni fa. È poco probabile che le possa riproporre oggi tali e quali, senza temere d’essere lapidato in piazza. Forse comincerebbe il suo romanzo con una frase al contrario.

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