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Opinioni

DOLORE INNOCENTE

ANNA MARIA BOTTELLI - 03/11/2017

magliette

magliette a sostegno dei bambini svantaggiati

La tragedia della vicina Como che ha visto coinvolte quattro vite di bimbi con il loro papà, non può e non deve lasciarci indifferenti. Ciascuno di noi, qualunque sia il suo ruolo sociale, dopo essere stato colpito attraverso i media da una notizia così efferata, provi a chiedersi il perché di tanta sofferenza in quella famiglia problematica – anche per motivi non sempre prevedibili, come può essere una malattia mentale – e cerchi, indubbiamente senza qualche difficoltà, una risposta a più livelli.

All’inizio della storia vi è il grido di dolore dei quattro bimbi, maltrattati dalla persona che avrebbe dovuto amarli e difenderli: la mamma. Una donna purtroppo malata, forse anche incompresa, che non è in grado di gestire la vivacità, l’esuberanza, la voglia di giocare e di ridere delle sue creature. Il male oscuro penetrato in lei le ha reso la giornata sempre più pesante e faticosa: la terribile depressione o – per quel che sappiamo – un’altra malattia mentale, si è impadronita del suo ruolo, trasformandola agli occhi dei figli in madre – quasi strega cattiva. Ma pur sempre madre e quindi da loro quattro sempre amata. Poveri piccoli! Pensiamo quanta sofferenza per tutti loro vedere il volto, lo sguardo, le mani non più portatori di affetto, di carezze, di baci, ma di involontaria violenza: lo sguardo cupo e torvo di chi non ha più il controllo delle proprie azioni! Avranno urlato e pianto quando la mamma si avvicinava con tono minaccioso, ma soprattutto i più grandicelli avranno soffocato un dolore più profondo, intimo, pensando – nella confusione più totale – di non essere più amati. Chissà se a qualcuno avranno confidato qualche parola del loro dramma: difficile che fossero stati in grado di raccontare ciò che accadeva, perché a quella età “parlare di emozioni” è particolarmente complesso.

La situazione per loro così conflittuale e surreale, a mio giudizio, bloccava anche l’approccio fiducioso da parte di altri adulti e creava in loro indelebili sensi di colpa. Immaginiamo il dolore provato e vissuto prima con il pianto disperato e poi nel silenzio più atroce, quando avranno dovuto fare i conti con l’assenza della loro mamma, portata via per loro senza un perché comprensibile: sentiamocelo un po’ anche nostro questo grido di dolore innocente… Ora Siff il primogenito di 11 anni, Sophia la maggiore delle tre sorelline, di 7 anni, Soraya di 5 e Saphiria la piccolina di 3, non ci sono più. La loro mamma è stata accompagnata, penso da persone che l’avevano presa in carico, all’Obitorio a vedere due dei suoi figli, immobili su un gelido giaciglio: terribile quel momento di dolore, non ci sono aggettivi sufficienti per descrivere una lacerazione così profonda che –come diceva mia mamma per averlo dovuto affrontare due volte – è come finire in un baratro infinito di acque gelidissime.

Ci auguriamo solo che la sua malattia possa permetterle di sdoppiarsi, di vivere questa tragedia come in una bolla fuori dalla realtà. Perché altrimenti, se non sostenuta da una fede granitica, unico eventuale appiglio in questa sua esistenza, la reazione potrebbe essere drammatica.

Una vigilia di Natale fine anni ‘90 fui chiamata presso la Comunità Alloggio della Provincia di Varese, nel mio ruolo di Responsabile Sanitaria, a valutare una bambina di 9 anni, che ora chiamerò con nome di fantasia Stella, allontanata dalla famiglia per una situazione di maltrattamenti psico-fisici. Al mio arrivo mi osservò sospettosa e guardinga. Era – mi raccontavano le educatrici – infastidita dalle voci a tonalità elevata (copriva costantemente le orecchie con le mani), poiché costituiva la modalità che presso la sua famiglia veniva applicata per ogni tipo di relazione, peraltro nei suoi confronti fatta di urlate, sgridate, scapaccioni. Presso la Comunità era impossibile in quel momento tenere in silenzio gli altri piccoli ospiti, in un clima natalizio effervescente e allegro. Stella aveva paura di tutto, dell’ambiente nuovo, delle persone di cui doveva imparare a fidarsi, dei nuovi compagni e anche ovviamente di me. Mi misi seduta di fianco a lei su un divanetto e cominciai a parlarle gradualmente nei giorni seguenti riuscii a visitarla. Ciò che percepii più volte di Stella dopo essere entrata in confidenza con lei, era il suo intimo grido di dolore, nascosto come in uno scrigno nel suo cuore. Forse aveva timore a trasmetterlo, forse si vergognava, certamente come i piccoli quattro fratellini di Como era confusa, con sensi di colpa angoscianti che avevano cercato di spegnere il suo sorriso che poi per fortuna, faticosamente, con l’aiuto di tutti gli operatori, ha riacceso il suo volto.

Era stato un bellissimo ringraziamento per tutte le persone che si erano occupate di Stella. “Papà, papà” urlava, in un periodo antecedente, un altro bimbo, che chiamerò Mario di 4 anni – quando vedeva passare i camion lungo la via Paravicini in una zona centrale di Varese, allora sede dell’ IPI (Istituto Provinciale Infanzia). Era figlio di un rigattiere che portava Mario sempre con sé già da quando era molto piccolo. Si era creato un legame affettivo importante con questo genitore nonostante i suoi limiti e le sue lacune. Il grido accorato di dolore del piccolo Mario era pertanto giustificato e condiviso dalle persone istituzionalmente preposte ad accudirlo. Con il suo ditino puntato e lo sguardo rivolto al movimento veicolare, ascoltava ogni rumore che potesse ricondurlo al suo amato papà. E noi tutti insieme l’abbiamo amato e aiutato a crescere.

“Papà, papà”…nella notte si sentono voci di bimbi che piangono, si muovono, vorrebbero scappare, invocano, si disperano…”papà, papà”…un grido di dolore che poi sembra sparire – forse dormono ? non litigano più ? andranno a scuola domani ? (così hanno interpretato i vicini) – ma infine purtroppo si spegne e definitivamente. Tutto tace nel buio profondo di una notte di ottobre alla periferia di Como dove fumo acre e fiamme avvolgono per sempre cinque vite. Quante volte questo papà – Faycal Haitot – trovatosi solo a gestire i suoi amati quattro bambini (nonostante, a quanto si legge, sostegni giunti da diverse parti) avrà urlato con loro, ma anche con chi avrebbe proposto a lui un aiuto concreto, penso probabilmente un affido. Ma lui ostinatamente non ha voluto separarsi da loro… e qui magari noi facciamo fatica a capirlo, perché in fondo si trattava di una separazione non definitiva, di un sostegno per tutti.

Indubbiamente un mondo culturale diverso dal nostro – era di provenienza marocchina – ha condizionato il suo modo di vedere le cose, insieme a un sentimento di grande paura, misto a preoccupazione, rabbia, senso di impotenza per la gestione del suo lavoro, forse diventato precario, della malattia della moglie di cui non vedeva la luce in fondo al tunnel, dei figli da mandare a scuola o alla scuola materna. Il suo grido di dolore – peraltro espresso in una lettera resa pubblica, che voleva dimostrare come lui avesse percepito l’iter di tutta la storia – attraverso numerosi sms, video, foto, inviati ad amici, conoscenti, persone che a vario titolo avevano un rapporto con lui, ci pone tanti perché su questa triste e tragica vicenda. Questa nostra società “liquida”, opulenta in questo tratto di Nord, per cui capace anche di slanci di grande generosità, ma che richiede – di necessità – freddi atti burocratici, con modalità di comunicazione spesso involontariamente a senso unico o anche – ammettiamolo – di ascolto superficiale, frenetico con la apparente condivisione e presa in carico dei problemi, pone a tutti noi motivi di profonda riflessione.

Un tempo la sussidiarietà della porta accanto, del cortile dove tutto veniva condiviso, soprattutto ai tempi della civiltà contadina, quando la semplicità delle famiglie povere si univa a una spontanea generosità, non aveva bisogno dell’ ISE o di carteggi infiniti !!! Attorno al desco di turoldiana memoria, ancorché povero, tutto era condiviso, soprattutto per i più piccoli l’attenzione non mancava mai! Oggi si definisce trasmissione “transverbale” ciò che i nostri nonni e genitori praticavano nella quotidianità attraverso un “ascolto” empatico dei bisogni altrui. Oggi con tanti strumenti a disposizione che permetterebbero di raggiungere più facilmente i soggetti indigenti, connazionali o stranieri, ci troviamo invece a constatare questo gravissimo fallimento sociale, esitato in quattro bare bianche, immagino poi ricoperte da tanti fiori bianchi. Che unite a quella del loro papà susciteranno emozioni infinite durante i funerali, lacrime, palloncini bianchi, poi? Speriamo che tutto non sia come prima. Che non si esaurisca con il “day after” del funerale. Un monito al mondo degli operatori, ma soprattutto a tutte le coscienze di noi esseri umani, questa vicenda deve lasciarlo.

Ricordiamoci che le persone, soprattutto se bimbi, ignari delle malevolenze di questo mondo, capaci sempre di stupirsi e di stupirci di fronte alle cose semplici della vita, che sanno insegnare ogni volta qualcosa a noi grandi…… oggi ci devono scuotere e far capire che l’uomo non è solo un carteggio ma è un individuo da “ascoltare” forse in modo nuovo, proprio a partire da questa drammatica esperienza. Oggi raccogliamoci in silenzio e “ascoltiamo” la voce di Siff, Sophia, Soraya, Saphiria, ora con gli angeli. La loro voce non è più il grido di dolore che ha ferito le nostre coscienze di esseri umani, ora si è trasformata in musica celeste che ci sussurra parole di bene, che ci dà la forza di continuare a sperare nell’uomo, che sa perdonare anche chi involontariamente non li ha capiti. Oggi il dolore innocente inondi di amore le nostre povere vite e ci faccia aprire all’ altro – sempre – con sentimenti di vera e autentica “ com-passione”. Ancora oggi e per sempre eleviamo un ringraziamento ai quattro piccoli per l’insegnamento che ci hanno donato e chiediamo loro che abbraccino con affetto infinito la loro amata e fragile mamma.

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