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Opinioni

RIFORMARE I PARTITI

ROMOLO VITELLI - 03/03/2012

 Il governo Monti, superati i suoi primi cento giorni, va acquistando sempre più i connotati di un vero progetto politico e con un documento on line ha tracciato un bilancio della sua attività. Rigore, crescita, equità, Europa, meno burocrazia e maggiore attenzione al cittadino sono questi i capitoli dell’agenda di lavoro. Quello di Monti si è rivelato un esecutivo diverso da tutti i precedenti ed è quello che ha portato il maggior tasso di discontinuità con il passato. Il bilancio dei suoi primi cento giorni al governo è sostanzialmente positivo, anche senza guardare agli spread arrivati, comunque, a quota 345.

Le ultime iniziative: il giro di vite sull’evasione, il no alle Olimpiadi, l’intervento sull’ICI degli enti religiosi, l’operazione trasparenza sui redditi dei ministri, la promessa riduzione delle tasse sui redditi più bassi confermano che questo è un governo riformista, nell’accezione più pura del termine. Cioè di un governo capace di scelte necessarie e dotato di uno sguardo lungo, di chi pensa agli italiani di oggi e a quelli di domani.

Il nostro Paese è anche tornato protagonista sulla scena internazionale. Nei cento giorni del governo Monti tutto è cambiato e tutto di colpo è parso invecchiare. Le pagliacciate e le risse e dei talk shov sono state spazzate via e al loro posto si è imposto una comunicazione serena, oggettiva, volta a chiarire i problemi e a far maturare una coscienza nazionale. Un virtuoso della comunicazione come Carlo Freccero, parlando dell’esecutivo, ha evocato un terremoto; un oppositore come Bobo Maroni ha parlato di una meteora.

In tre mesi, onestamente, date le condizioni politiche entro cui si muove il governo, le lobbies e i paletti e i condizionamenti del centrodestra era difficile pretendere di più. Anche grazie alla tregua della battaglia politica e all’appoggio del Quirinale, questo governo si è dimostrato all’altezza di una situazione difficilissima quando i mercati scommettevano sul default italiano. Monti ha dimostrato all’opinione pubblica che siamo molto meglio di chi ci ha governato negli ultimi anni. Ma l’avere fatto in pochi mesi quello che le forze politiche da anni promettevano di fare e non hanno fatto, ha contribuito non poco a indebolire ulteriormente i partiti sia quelli che lo sostengono sia quelli che gli si oppongono.

Dai sondaggi, anche quello recente dell’Unità, di Carlo Buttaroni, presidente di Tecné, e l’ultimo in ordine di tempo di Mannheimer, sul Corriere del 27 febbraio, emerge un costante distacco degli elettori dai partiti. Il Pd resta primo partito, ma l’area del non voto batte tutte le coalizioni. Dal 2008 il PDL ha perso oltre 14 punti. Ma c’è un calo di consensi alle principali forze politiche che non si compensa all’interno dello stesso schieramento né si orienta sul campo opposto.

Il vero partito in ascesa, in questa fase politica, è quello degli astensionisti che ha raggiunto il 45% di astensioni e investe più o meno tutti i partiti. E la fiducia nei partiti, dopo gli ultimi scandali, secondo gli ultimi sondaggi, è scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012); mentre la politica ormai si esprime in gran parte al di fuori dei partiti. L’antipolitica che in Italia ha trovato alimento negli errori e nelle incapacità della politica, sia di maggioranza sia di opposizione sta montando, approfittando dell’oggettiva debolezza della nostra politica democratica. Ma l’antipolitica e la disaffezione per la politica crescono soprattutto a causa del fallimento del governo di centrodestra nell’affrontare la crisi, ma anche perché il Pd non ha proposto un’alternativa credibile e il centro di Casini non ha fatto una scelta univoca nella sua politica di alleanze. È noto che Casini da tempo persegue l’obiettivo di mantenere il governo Monti anche dopo le elezioni del 2013, del resto lo ha ribadito in un’intervista a la Repubblica del 27 febbraio, dicendosi convinto che in questa fase politica – il governo dei tecnici, la grossa coalizione che lo sostiene – “non possa essere liquidata come una parentesi di fine legislatura. Il presidente del Consiglio Monti riconsegnerà ai partiti e alla politica le chiavi del governo del Paese. Che poi i partiti quelle chiavi gliele riconsegnino, al termine della campagna elettorale, non è da escludere”.

Del resto questa è un´eventualità che non dispiace a Berlusconi. Al quale conviene che Monti governi almeno fino alla scadenza naturale della legislatura. E magari anche oltre. Per una ragione su tutte le altre: se si votasse oggi, il centrodestra non avrebbe speranze contro il centrosinistra. In prospettiva quello che resta da capire, se come sembra l’orizzonte temporale di Monti è destinato ad allungarsi, non solo alle elezioni del 2013, ma anche oltre, quale sarà il destino dei tradizionali partiti italiani. A questo punto si pone un interrogativo non retorico: quali potrebbero essere le conseguenze di un simile scenario per i partiti terremotati dal proseguimento del governo Monti oltre la scadenza naturale?

Per i dirigenti di molti partiti questo rischia di essere un problema serio. Ma se ci si riflette bene però ciò che in realtà sembra essere un problema, per la politica italiana grande ammalata, il governo Monti, può rivelarsi una vera opportunità. Se si considera che il rapporto dei partiti con l’opinione pubblica era già fortemente compromesso prima ancora dell’arrivo di Monti, non si può escludere che di qui a un anno l’attuale classe politica sia da “rottamare” e da spazzare via in blocco e non sarà facile sostituirla in breve tempo. E questo non potrà non avere conseguenze serie per la nostra democrazia perché i partiti sono, come ricorda Michele Ainis, citando Montesquieu, “l’ossatura politica del popolo”.

Non è facile prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. Una cosa è certa: nulla resterà come prima! E a questo punto bisogna chiedersi: “Se la politica da sola non ce la fa più, ci sono agenzie e processi che possano surrogare la funzione di socializzazione politica svolta un tempo dalle organizzazioni di massa? E ancora: “La società più o meno civile è in grado di articolare una domanda di governabilità all’altezza dei tempi? Può costruire la propria forma del politico?”

Ancora non lo sappiamo. Essi stessi non dispongono degli strumenti e dei progetti in grado di curare i mali di cui sono il sintomo. Piuttosto li aggravano. “In questo Paese” – dice Ilvo Diamanti su la Repubblica del 27 febbraio 2012 – “dove i partiti, privi di credito, contano molto meno dei leader; e dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso, la questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.

 Io ne dubito. Anzi: lo escludo, neppure se al berlusconismo succedesse il montismo. Che fare a questo punto ? Sta a molti degli attuali dirigenti rassegnarsi a farsi da parte, o provare a riaccreditarsi. Tentativo difficile, ma non necessariamente impossibile, anche se ad alto costo. “Spetta soprattutto al PD – dice Piero Fassino – che si sta consolidando come una forza dall’identità chiara, riformista, progressista, di centrosinistra, con un radicamento sociale ed elettorale reale, dare risposte alla crisi della politica. Per questo spetta in primo luogo al Pd affrontare il tema della crisi dei partiti e offrire ai cittadini un’idea della politica credibile e convincente.”

Ma naturalmente questa strada può essere perseguita soltanto se tutti i partiti escono dalla loro autoreferenzialità, si aprono alla società, cambiando radicalmente la loro organizzazione e il loro linguaggio.

“Viviamo – continua Fassino – una fase in cui formalmente i partiti continuano a pensarsi come si pensavano nel ‘900, mentre nei fatti viviamo in una società molto diversa. E anche la capacità di elaborazione e di avanzare proposte è largamente inadeguata. Cambiare il modo di essere della politica richiede certamente segnali forti e anche atti di rottura da parte del gruppo dirigente nazionale. Ma c’è una responsabilità non meno rilevante dei dirigenti locali. Se in questo o quel territorio il Pd si presenta agli occhi dei cittadini come un partito chiuso, rissoso, lontano dalla società, quell’immagine pesa molto di più di quanto possa incidere l’immagine e l’iniziativa del partito a livello nazionale”.

Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che ha assunto nuove forme di espressione.

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