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Parole

SOLITUDINI

MARGHERITA GIROMINI - 10/11/2017

ius-soli“Chiunque capitasse nelle classi italiane capirebbe che la legge sullo ius soli non è un obiettivo ma una condizione”.

L’ho letto in un articolo qualche tempo fa.

Continuo a non capire la contraddizione di una nazione che si è adoperata per progetti di inclusione, investendo risorse ed energie, e ancora tergiversa, balbetta, rimanda sine die una scelta di civiltà che altri paesi europei hanno già compiuto.

Diciamolo, è tempo di attribuire, non di concedere, la cittadinanza italiana ai ragazzi che sono nati qui da genitori regolarmente autorizzati a risiedere nel nostro paese, dove lavorano e pagano le tasse contribuendo al benessere collettivo. In attesa della cittadinanza ci sono anche quei ragazzi nati altrove nonostante in Italia studino da almeno cinque anni.

Siamo al punto in cui la questione da risolvere non è più solo un problema degli stranieri – ormai “non più stranieri”, e dei loro figli in realtà “mai sono stati stranieri” in quanto dei nostri giovani condividono quasi tutto, ma per noi.

Questi ragazzi non dovrebbero più essere tenuti ai margini: costituiscono una generazione che non è trattata come i coetanei “italiani”con i quali studiano, giocano, trascorrono il tempo libero.

È troppo affermare che abbiamo due generazioni di giovani: di figli e di non-figli?

Una cittadinanza inclusiva invece è lo strumento chiave per arricchire un paese come il nostro, che ha una naturale vocazione per una leadership culturale ed economica nel Mediterraneo.

La legge precedente, del 1992, è insufficiente perché contempla un’unica modalità di acquisizione della cittadinanza, lo ius sanguinis: un bambino è italiano se almeno uno dei genitori è italiano.

Un bambino nato da genitori stranieri, anche se venuto alla luce sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e sempre che fino a quel momento abbia risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”.

Le contraddizioni risultano evidenti analizzando la storia della nostra scuola, costellata da grandi riforme inclusive, che hanno creato le condizioni che oggi noi diamo per scontate ma ritenute avanzate nel quadro europeo: classi miste, inserimento e integrazione dei disabili con la figura degli insegnanti di sostegno, programmi personalizzati per studenti con disturbi di apprendimento, mediatori culturali per i ragazzi stranieri, progetti su vari temi tra cui la cittadinanza e la legalità.

L’assurdo, per chi insegna, lo ha detto forte e chiaro un maestro elementare coraggioso, oltre che bravo e appassionato, Franco Lorenzoni, promotore di una raccolta di firme a favore dello ius soli. “Io non posso accettare di avere in classe ragazzi cittadini e ragazzi che cittadini non saranno mai. È per un motivo educativo e perfino didattico che mi ribello alla non cittadinanza, perché questa condizione mina alla base il mio mestiere”.

Aggiungo: che senso ha un’educazione alla cittadinanza proposta a classi dove siedono tanti bambini e ragazzi stranieri dalla medesima cittadinanza esclusi? Come si può parlare di diritti ad una platea di ragazzi una parte dei quali è esclusa dal diritto fondamentale dell’appartenenza al paese in cui si vive?

I docenti della scuola del terzo millennio devono trovare le parole per spiegare ai propri studenti che in Italia vige una legge antiquata e anacronistica, dal nome vagamente inquietante, “ius sanguinis”, vale a dire quell’insieme di diritti di cittadinanza legati alla discendenza. Difficile capire perché è automatico attribuire la cittadinanza italiana al pronipote di un italiano emigrato in Argentina, in quanto discendente da un italiano, e non anche al giovane studente non italiano, ma integrato nella scuola e nel mondo dei pari italiani.

Abbiamo bisogno di una nuova legge che introduca i due nuovi criteri per ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni, uno è lo ius soli – “diritto legato al territorio”- temperato, e l’altro è lo ius culturae, “diritto legato all’istruzione”.

Con il primo “ius” un bambino nato in Italia diventa automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da 5 anni; con il secondo, che passa attraverso il sistema scolastico italiano, si concede la cittadinanza italiana ai minori stranieri nati in Italia o arrivati nel paese entro i 12 anni di età, e che abbiano frequentato almeno un ciclo scolastico nelle nostre scuole.

Chi è nato all’estero, ma è giunto in Italia fra i 12 e i 18 anni, potrà ottenere la cittadinanza dopo aver vissuto in Italia per almeno sei anni, avendo allo stesso tempo superato un ciclo scolastico.

Ius soli non è una sigla: sono migliaia di vite senza un volto ufficiale che attendono di essere riconosciute anche dalla legge.

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