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Attualità

ESSERE ITALIANI

MANIGLIO BOTTI - 16/11/2017

1954: la conquista del K2

1954: la conquista del K2

Gente strana. È un fatto, come scriveva qualche giorno fa sul Corriere della Sera Aldo Cazzullo, che l’essere italiani comporta una grande responsabilità. E ciò più nelle cose positive, che tendono spesso a essere dimenticate, anche perché sono pochissime, che in quelle negative: ricordate e talvolta anche celebrate nel nostro inveterato ricercato masochismo.

Sarà che in questi giorni di ottobre-novembre, nella ricorrenza del suo primo centenario, s’è registrato un florilegio di pubblicazioni e di saggi sulla battaglia di Caporetto, sconfitta che fu tra le più ignominiose che il nostro popolo ricordi – alla sua prima esperienza bellica di un certo rilievo quale fu la prima guerra mondiale –, quasi a compiacersene.

E si vedrà se l’anno prossimo, primo centenario della resistenza del Piave, della seconda battaglia del Grappa e, infine, della rivincita di Vittorio Veneto, a sancire il definitivo crollo degli Imperi centrali, ci sarà un’altrettanta serie di libri e di articoli – magari anche un po’ elogiativi – sul nostro buon carattere e sulle nostre capacità di ripresa.

È lecito avere qualche dubbio. Non è un caso che siano entrati nei dizionari soltanto nomi comuni come caporetto, a segnare sconfitte disastrose. Inoltre si pensi pure – absit iniuria verbis – al termine corea, che caratterizza ogni batosta non solo calcistica che ci riguarda come Paese. Quella ultima e recente di San Siro (il calcio ormai fornisce le uniche occasioni in cui si sente parlare di Nazione-Nazionale e si ascolta tutti in piedi l’Inno di Mameli) dev’essere ancora metabolizzata. La Svezia ci ha esclusi – giustamente – dal mondiale in Russia. Adesso tutti a caccia, sui campi di gioco, del nostro Diaz, anche se è più facile che rispunti un furbacchione tipo Badoglio, un uomo per tutte le stagioni.

Non v’è traccia, così, nei dizionari di vocaboli in positivo, magari le parole comuni piave o montegrappa, appunto, per ricordare i momenti italiani di riscossa. E magari, restando ancora al calcio, a madridottantadue, a berlinoduemilaessei, e infine al mitico (e oggi commovente nel ricordo) italia-germania-quattroatré, dell’Azteca in una indimenticabile sera d’inizio estate.

È un vezzo il nostro, una forma ben celata di modestia nemmeno tanto da disprezzare? Chi lo sa. Ma è anche vero ormai che in Italia da tempo è cambiato il modo di comunicare e con esso il comune sentire della gente. In positivo e soprattutto in negativo. Non esistono più gli eventi epici. Quelli che si è obbligati a ricordare e di cui si deve discutere. I giornali prima e la televisione poi hanno messo tutto nel loro tritacarne. I social, specie nell’ultimo decennio, hanno fatto il resto. Dei fatti positivi quasi mai si parla, e anche quelli negativi – che pure godono di una maggiore pubblicità – resistono qualche giorno per poi offrire spazio ad altri nuovi e diversi. Ma sempre in chiave nera.

Chi scrive – sarà l’età che avanza – ricorda con commozione fatti che, nell’arco dell’ultimo mezzo secolo, hanno caratterizzato la vita italiana. Si pensi per esempio, in positivo, alla conquista del K2. I due alpinisti italiani – Achille Compagnoni e Lino Lacedelli –, che nel 1954 erano riusciti a piantare il tricolore sulla vetta della seconda montagna più alta del mondo, compirono nei giorni successivi alla loro impresa una sorta di tour promozionale nelle principali città italiane. Vennero anche a Varese e ci si ricorda ancora di una gran folla in via Sacco, davanti alla sede del Comune, venuta ad accoglierli e a applaudirli..

E fatti in negativo, altrettanto scandagliati, sempre emozionalmente vissuti, ma non proprio per piangerci su miseramente. Due esempi: il naufragio del nostro transatlantico Andrea Doria scontratosi nel luglio del 1956 con la nave mercantile svedese Stockolm al largo di Nantucket; la morte e i funerali di un grande campione dello sport e del ciclismo quale fu Fausto Coppi, il 2 gennaio 1960, che rimase per diverse settimane avvolta nel “mistero”, benché si trattasse di un grave attacco di malaria, malattia che il campione aveva contratto durante un suo viaggio in Africa e che non era stata scoperta al suo primo manifestarsi.

Riguardo l’affondamento dell’Andrea Doria, e ben più di quanto sarebbe accaduto cinquantasei anni dopo con il naufragio della nave da crociera Concordia dinanzi all’Isola del Giglio, l’interesse e il coinvolgimento degli italiani sarebbero stati incommensurabilmente superiori. Sempre chi scrive, ricorda che nel suo piccolo paese in Umbria venivano organizzate sedute serali davanti alla tv, come al cinema. Era presente quasi tutta la popolazione. Il Museo del mare, a Genova, ha dedicato alla storia dell’Andrea Doria un intero salone.

Oggi tutto si brucia più in fretta. È davvero un’altra epoca. Si schiaccia un tasto, si fa un clic e compaiono sullo schermo storia e notizie cui ci abbevera come a una fonte di acqua fresca. E spesso la sete di sapere e di conoscere viene debellata in fretta.

Altri tempi, altre vicende. Fino a meno di cinquant’anni fa, per esempio, c’erano ancora i cantastorie. Li ricorda Ricciotti Bornia, scrittore d’adozione varesina, morto centenario qualche tempo fa, e autore di numerose pubblicazioni. Arrivavano – spesso – con il Luna Park che subito dopo la guerra era allestito in piazza Repubblica, davanti alla caserma Garibaldi, e successivamente fu trasferito in via e piazza Maspero dove oggi, tre volte la settimana, viene montato il mercato degli ambulanti.

I cantastorie erano i cronisti dell’altro ieri. Non è che sia passata una vita ma è il tempo a correre veloce. E gli argomenti non è che fossero proprio di attualità. Ancora negli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta si parlava della Tenda Rossa di Umberto Nobile. Suo ultimo rifugio sul pack del Polo Nord dopo il fallimento di una missione con il dirigibile Italia: aprile 1928. Tra i suoi uomini c’era anche un masnaghese, il signor Bocci, che ogni tanto tornava nel rione cittadino e girava nei bar indossando un cappellone bianco tipo Stetson e stivali da cavallerizzo. E il cantastorie – ricorda Ricciotti Bornia – spiegava: “Una tenda rossa, sola sola, sui ghiacci restò… Ma una voce lontana e commossa da quel luogo il soccorso invoco!”. Altri tempi davvero, un altro modo di fare cronaca e storia.

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