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Stili di Vita

DAVANTI ALLA MORTE

VALERIO CRUGNOLA - 16/11/2017

I soccorsi dopo l’incidente

I soccorsi dopo l’incidente

ATTO PRIMO – Lo scorso 24 ottobre un episodio di cronaca avvenuto a Riccione si è imposto all’attenzione dei media. A.S., uno storico dell’arte di 29 anni che si interessa del liberty italiano, considerato in quota al team Sgarbi, mentre rientra a casa sul fare dell’alba si imbatte in un ragazzo morente sul ciglio della strada. L’incidente è avvenuto qualche minuto prima. Nonostante l’ora, la via è trafficata e qualcuno ha già chiamato l’ambulanza. A.S. non può non intuirlo: attorno al ragazzo agonizzante c’è la polizia e la tensione è altissima.

La reazione del critico, professionalmente giovane ma anagraficamente adulto, è abnorme. A.S. si mette a fotografare compulsivamente la scena e a postare le immagini del ragazzo morente su Facebook come se si trattasse di documentare una performance di Marina Abramovich, la geniale artista contemporanea che del proprio corpo, e del rapporto tra il suo corpo e il corpo dei visitatori, ha fatto l’oggetto di molte sue «installazioni». Scrive: «Se guardate questa diretta, chiamate i soccorsi!»; «C’è sangue, speriamo si salvi!».

Perché A.S. ha reagito così nel consumarsi di una morte drammatica? Vi propongo una scala di ipotesi tra loro compatibili.

Forse il brivido della «diretta» ha insinuato in lui la «sindrome di Frajese», un cronista Rai sempre presente negli scenari più drammatici. Ma postando le foto su Facebook A.S. non voleva narrare o documentare nulla. Mostrando al suo «pubblico», alla sua privata «platea» una persona sul confine tra la vita e la morte, voleva anzitutto attrarre l’attenzione su di sé, affermare un proprio «logo», un proprio «target», un canone identificabile. Narcisismo infantile, si direbbe.

Più verosimilmente, A.S. pregustava il fremito della fama: l’orgasmo esibizionistico e protagonistico ha prevalso su ogni autocontrollo e ha travolto i confini di ogni decenza. L’isterica frenesia di chi con una foto vuol far sapere al mondo: «Io c’ero», per mettersi in luce e guadagnare in popolarità nel bar di quartiere, in ufficio o in classe, ci ha ormai abituati a tutto. Chiamiamola «Sindrome di Paolini».

I ruoli di spettatore e di attore si mescolano. Il fantasma della popolarità illude gli anonimi di riscattare con una foto la loro condizione di «fotocopie», di umani seriali «senza qualità»: accade così a chi si copre di tatuaggi, o a chi adotta pettinature vistose e altri simboli feticistici che dovrebbero segnalare il loro distinguersi in assenza di qualcosa di veramente singolare che ne manifesti la personalità. I simboli surrogano un’individualità che non c’è. Tramite quel «manifestarsi», quel rendersi ipervisibili, si esorcizza la propria indistinguibilità, il proprio essere «massa» indifferenziata. Soltanto così l’io carente «esiste». «Visus, ergo sum». Ma le vittime di questa smania non sono necessariamente solo gli anonimi in cerca di un istante di riscatto che li gratifichi. Spesso chi è già noto vuole ravvivare e ritoccare la propria fama. Chiamiamola «Sindrome di Pelù».

Verosimilmente anche il giovane critico di Riccione voleva dire: «Io c’ero», «Ero lì». Ma l’idea che A.S. abbia obbedito a un «riflesso condizionato», a un diffuso automatismo, è insipida. Non tiene conto dell’eccitazione del momento. Gonfiata dall’ebbrezza, l’ansia prestazionale è divenuta compulsiva e A.S. ha perso misura, autocontrollo e senso di realtà. Possiamo avanzare un’ipotesi un poco più sofisticata. A.S. ha ceduto all’impulso di fissare una scena irripetibile, l’attimo fatale. Una duplice estetica: «eroica» e «pittorica».

Ma A.S. ha stravolto la sequenza tradizionale: il tempo necessario per proporsi come l’uomo forte che tiene emozioni e cose sotto controllo; e nell’istante successivo il rientro nel contesto reale con comportamenti appropriati. Dopo lo scatto Robert Capa soccorse il miliziano colpito a morte dai franchisti, Nick Ut un attimo dopo aver immortalato i bambini vietnamiti in fuga dal napalm cercò di tranquillizzare la bambina. In uno stato di incontrollata ebbrezza, invece, A.S. si è illuso di fissare qualcosa di eterno, un archetipo, il realismo di un attimo che nessun pittore ha mai potuto, né potrà, fissare nel suo studio. Ma non ha esternato alcun sentimento di empatia o gesto di pietas per la vittima, né ha tenuto conto della povertà e delle distorsioni del mezzo.

Di qui un’ulteriore ipotesi. Conosciamo i corto circuiti che si attivano in alcuni momenti fuori controllo e l’abbassamento della soglia che frena i nostri comportamenti. Probabilmente A.S. in quell’evento estremo ha intravisto l’estetica perversa della «pornografia della morte», e con un brivido sulla schiena le si è abbandonato senza pensarci. Forse ha sentito dentro di sé la presenza del pubblico vicino e di quello virtuale a portata di mano, e ha pensato di caricare la mano: forse era già attratto per formazione verso il «politicamente scorretto»; forse si è abbandonato ad un impulso trasgressivo che ha varcato il divieto di rappresentare la morte.

La scena reale dell’incidente, con il ragazzo morente, era troppo forte da sostenere con saldezza di nervi. Lo smartphone in tasca ha offerto una via meno perturbante: per esorcizzare la morte, occorre ridurla a spettacolo; ma non potrò mai ridurla a spettacolo per me, che la ho davanti, se non la allontanerò condividendola in uno specchio neutro per tutti i miei «seguaci» che mi guardano. Per distanziarla dalla mia emotività devo «pubblicarla» e invitare altri ad esserne spettatori. Distribuendo il peso psicologico che grava su di me, diminuirò la mia angoscia e la mia paura, che ho saputo coprire con reazioni fredde e indifferenti.

Aggiungiamo così un nuovo elemento. La «condivisione» è una via di fuga. L’emotività non regge alla nuda vista della morte. La morte attrae il mio sguardo, ma al tempo stesso lo respinge, Soprattutto, sono solo davanti alle emozioni, e non so governarle. «Il cellulare – ha scritto su Repubblica Michele Smargiassi – ha uno schermo, e A. lo ha usato per fare schermo tra sé e la realtà… Tutti adesso abbiamo una mamma tascabile, grande consolatrice, per gestire le nostre pulsioni infantili che debordano nell’età adulta». Lo schermo distanzia e neutralizza: «Il display ci dà accesso alla realtà, ma in un modo che ce la fa consumare in immagine, come se la vedessimo in tv, stando altrove, al sicuro».

ATTO SECONDO – I cosiddetti «social» sviluppano sentimenti egotici, che ci esonerano dal prendere parola, dalla faticosità del gesto e dalla difficoltà di nominare affetti ed emozioni. In un singolare effetto specchio, vediamo gli altri solo attraverso il riflesso che suscitano in noi. Ma nel momento in cui i nostri segnali – quali che siano – divengono «pubblici», essi sfuggono alla nostra intenzionalità, non importa quanto consapevole, e si mutano in altro. La notizia dell’episodio è subito divenuta virale nel web ben prima che fosse resa pubblica sui giornali. L’informazione meditata, con la sua funzione di raffreddamento, o è scomparsa o arriva tardi.

Il web si riempie di invettive. Per una sorta di nemesi, quella visibilità, quel conforto e quello schermo che A.S. inconsapevolmente desiderava, si muta per lui in un tormento al limite del linciaggio. Inesorabilmente si consegna inerme e solo ai «leoni da tastiera». I sociologi americani della comunicazione definiscono queste reazioni collettive «hate speech», parole che incitano all’odio.

La «sindrome di Paolini» e la «sindrome di Grillo» sono due facce della stessa medaglia.

Senonché il giorno dopo gli autori della giustizia sommaria si sono già dimenticati, e vagano come avvoltoi in cerca di nuovi pretesti per le loro invettive. Gli unici a portare le ferite sono l’incauto A.S. e i nostri costumi sempre più imbarbariti.

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