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L'intervista

IL BALLO E LA VITA

FELICE MAGNANI - 01/12/2017

elena

Ognuno ha un viso, un sorriso, una voce, un cuore, un carattere, ma ciò che veramente conta è l’ironia con cui affronti i muri di una vita a volte ingiusta, è come ti poni di fronte a chi vuole entrare in sintonia con te per conoscerti più a fondo, per fornire una risposta alle difficoltà di un’esistenza apparentemente complessa, ma pur sempre affascinante. Quella di Elena è una scuola dal vivo, che passa attraverso l’esperienza di una vita diversa dalla tua, dove l’amore e il dolore esistono e scavano in profondità per dare risposte diverse, ma coerenti e dove quello che per te è scontato per altri non lo è affatto. Non esiste una diversità talmente diversa da non concedere una possibilità d’ incontro.

Elena Travaini è una ballerina non vedente che vive di petto il suo rapporto quotidiano con quel qualcosa che non si aspettava. Vive  partecipando della realtà, con quell’amore incredibile per la danza che si porta dietro fin da bambina, con l’intenzione di voler dimostrare a se stessa e agli altri che esiste una filosofia meno teoretica e più pratica, capace di compiere miracoli.  Danza nelle piazze e sulle scene del mondo, tra ovazioni e applausi, dimostrando che i limiti esistono, ma solo per aiutarci a capire meglio chi siamo e cosa ci riserva quella parte della vita che portiamo dentro come un tesoro nascosto, nella maggior parte dei casi senza saperlo. E’ la fondatrice e presidente di Blindly Dancing, ovvero “Vivere è un modo di pensare”, è ambasciatrice di una danza speciale, che aiuta a entrare  nell’ interiorità del mondo, per renderlo più vero, più umano e più autentico di quanto non sembri, rimettendo in gioco tutte quelle  risorse umane che madre natura sa donare a chi ha la pazienza e la buona volontà di volare oltre quei muri, dove una certezza esiste per tutti, anche per chi prova temporaneamente la sensazione di essere stato tradito.

L’intervista è stata realizzata nel Salone del Centro Tricologico Sarà Stile di Sara Picciolo a Luino, amica e confidente della bravissima ballerina

Elena, com’è difficile parlare dell’amore, scoprirlo e viverlo nella sua pienezza. Immagino che tu abbia dovuto superare molti muri, prima di incontrarlo.

Gli argomenti amore, amicizia, rapporti interpersonali non sono mai stati un problema, nel senso che io ho avuto un sacco di amici, perché mi sono sempre posta di petto. Teniamo presente che per una femmina sentirsi definire “la moglie del diavolo” o “Non ti vergogni a mettere il naso fuori di casa” o “Se fossi in te non mi farei neanche vedere” è pesante e quindi inizi a farti delle domande, del tipo: “Perché proprio a me?”, “Cosa ho fatto di male nella vita per meritarmi questa situazione?”, “Perché mi prendono in giro?”. Non è colpa mia! Sono nata così e non ci posso fare niente!”. Il problema è che i bambini, o meglio i genitori stupidi dei bambini questa cosa non la capiscono, perché poi, diventando adulta e relazionandomi io stessa con i bambini, spiegando loro in modo corretto le cose come stanno, ti pongono quattro o cinque domande e tu rispondi loro esattamente: “Da piccolina ho avuto una malattia e mi trovo in questa condizione”. Capita che ti dicano subito: “Ah, però sei simpatica”. Mia figlia che ha dieci anni non ha mai avuto problemi di compagni di scuola che le dicessero: “Tua mamma è così…”. Non è mai successo che la prendessero in giro per le mie condizioni. Resta il fatto che per me, quando è iniziata la scuola, era una paranoia, perché non volevo che mia figlia fosse presa di  mira. A fronte di eventuali domande è sempre stata molto chiara: “Mia mamma ha avuto una malattia, non ci vede, è andata a BALLANDO CON LE STELLE e naturalmente proietta tutto nella mia attività, parlando della mia passione per la danza, dei miei incontri, delle performance in giro per il mondo con Anthony Carollo. Per le compagne di mia figlia non sono la mamma di Aurora, sono Ele. Con il tempo ti accorgi che non è il bambino a essere cattivo, ma è chi gli sta dietro, chi dovrebbe avere il compito di dargli un’ educazione adeguata. Viaggiamo tanto e ci capita di vederne di tutti i colori: il signore che dorme per strada, quello senza una gamba, la signora in carrozzina,  è normale che qualche volta ti fermi a guardare, l’avrei fatto anch’io. Un conto però è guardare con gli occhi di uno che vuole sfottere e che ci prova gusto, magari frustrato dalla sua esistenza, un conto è osservare con lo sguardo ammirato di chi constata: “Toh, guarda, questo è in giro in carrozzina da solo, che bravo! Quella vecchietta è in giro da sola per Milano con un sacco di sacchetti in mano, che forza!”,  c’è tutto un modo di relazionarsi, di porsi nei confronti della realtà, delle persone che hai di fronte. All’inizio rifiutavo l’aiuto, avrei voluto fare tutto da sola, ma il problema è che per certe cose ti rendi conto che hai bisogno di aiuto, che devi dipendere da qualcuno, ma l’importante è non farsene un problema, vivere con disincanto le cose da fare.

Elena, aver bisogno è un fatto naturale, tutti abbiamo bisogno, anche se mi rendo conto che in qualche caso la dipendenza possa creare qualche problema

Accettare il fatto di aver per forza bisogno di qualcuno per fare determinate cose non è sempre facile, potrebbe sembrare che l’aiuto diventi una forma di risarcimento alla tua condizione come a scuola ad esempio, dove ti senti raccomandata perché l’insegnante di sostegno ti alza il voto perché sei disabile, mentre a casa ti fai un mazzo incredibile per essere all’altezza. A volte avverti il peso della tua situazione, perché fai fatica a leggere, devi usare il braille. La scuola, per me, è stata oltremodo impegnativa. Usavo tre tecniche di studio: il computer, con l’ingrandimento, la registrazione e il braille. Riuscire a star dietro a una lettura di una ragazza che ci vede perfettamente e seguirla sul libro in braille è una cosa difficilissima. Un libro scritto in braille saranno si e no circa una ventina di pagine di un libro normale, perché la scrittura è grossa, quando devi trovare un punto sei in difficoltà, l’inizio di un paragrafo non esiste e gli altri non hanno pazienza. Con la mia testardaggine mi sono messa in piazza, mi sono aperta, ho dovuto farlo per mettermi alla prova, per trovare una mia dimensione sociale, per affrontare la vita nei suoi risvolti reali, per essere me stessa. Ai miei amici, ma anche a certi conoscenti non passa per la testa che io non ci veda, si comportano come se fossi una di loro, una che può muoversi, camminare e correre come tutti. E’ bellissimo, vuol dire che sono riuscita a dare un volto credibile alla mia rinascita, vuol dire soprattutto che l’amicizia vera va oltre tutto, è un sentimento che parte da dentro. Capita anche con Sara, la mia parrucchiera. Ogni tanto mi dice: “Va bene così?”. E’ piacevole sentirselo dire, perché in quei momenti è come se la cecità non esistesse, come se all’improvviso fosse successo un miracolo. Nella mia vita le ho provate tutte, mi sono messa alla prova, ho percorso il Campanile di Giotto, La Tour Eiffel, San Pietro, ho voluto dimostrare a me stessa che esistono anche altri mondi da consultare e da percorrere.

Che emozioni provi durante le tue performance?

Il fatto di essere seguita da tante persone ti invoglia a voler superare sempre di più i tuoi limiti. Il calore del pubblico, il suo entusiasmo, l’amore che ti dimostra ti fanno capire che quello che stai facendo ha un senso non solo per te. In quei momenti ti rendi conto che, anche al buio, si può esprimere per intero la propria personalità, si può essere in sintonia col mondo lasciando, a chi vive il mio problema, la possibilità di sognare. Tocchi con mano ciò in cui hai sempre creduto: la fiducia nella danza, nell’impegno che hai sempre messo in tutto ciò che hai fatto, la fiducia nel compagno che condivide il tuo modo di essere, la tua filosofia, il tuo amore per qualcosa che sa guardare in profondità, per allargare la sfera profonda dell’essere umano. E’ il momento del riscatto, in cui ti senti veramente artefice della tua fortuna. Ballare bendati è la chiara dimostrazione di quanto sia possibile superare quel limite che l’essere ciechi comporta. Mi piace capire che tipo di pubblico ho di fronte e in base a quello creare un certo tipo di emozione, perché se ho davanti cento persone molto emozionali, mi sento perfettamente a mio agio. Ricordo che una volta mi sono trovata a parlare di me di fronte a cento insegnanti, ho percepito una fortissima sensazione di ansia, era il clima stesso a trasmettermela. Quel silenzio suonava come un ascolto inquisitorio,  era sconvolgente. In dieci secondi ho dovuto macchinare nel mio cervello per trovare il modo più giusto per rapportarmi positivamente con quel pubblico esigente che avevo di fronte. Ci sono riuscita, che bellezza! Alla fine si sono alzati tutti in piedi per applaudire l’ esibizione. Anthony mi guardava e sorrideva, eravamo veramente felici. A Torino, ad esempio, ho ballato e parlato di fronte a cinquantaseimila persone, per un evento legato alla ricerca sul cancro, è stata un’altra bellissima emozione, così come lo sono quelle nei teatri e nelle piazze di tutto il mondo, dove danzando insegniamo il nostro metodo, la nostra filosofia esistenziale. Nella mia vita mi sono sottoposta a tantissime interviste per la radio, la televisione, il cinema, ma ho sempre voluto essere libera di esprimere il mio pensiero senza dover sottostare a  rituali o protocolli creati da altri per me. Sono una convinta assertrice del racconto empatico, quello vero, quello che non si nasconde perché vuole arrivare al cuore di chi ascolta. Non sopporto quei “Dai poverina…”. “Che vita drammatica avrà avuto…”. Non voglio assolutamente essere quella che racconta in televisione quanto la sua vita in certi momenti ha fatto schifo. Nella mia vita ci sono stati, è vero, dei momenti complicati, come hanno tutti almeno una volta nella loro. Mi riferisco soprattutto all’età adolescenziale, quando anche una benché minima diversità può causare frustrazioni profonde e stati di ansia. Credo che il mondo adulto e in particolare le famiglie abbiano il dovere di insegnare l’educazione ai propri figli, la comprensione, la tolleranza, la capacità di capire e stare con l’altro, soprattutto quando l’altro ha bisogno del nostro sostegno.

Elena quali ricordi hai della tua adolescenza, ce n’è qualcuno particolare?

Ho avuto la fortuna di avere alle spalle una grande famiglia. L’interruttore non l’ho acceso durante il periodo dell’adolescenza, ma alle Elementari. Ho sempre avuto degli insegnanti di sostegno che hanno creato aggregazione e questo mi ha permesso di non essere vista come la diversa, di non sentirmi isolata, ma di stare con gli altri, di collaborare alla pari con tutti gli altri bambini. La mia insegnante di sostegno, invece di portarmi sistematicamente fuori, era riuscita con le altre maestre a creare delle attività didattiche che coinvolgevano non solo la classe, ma tutta la scuola. Abbiamo fatto dei plastici del triangolo delle Bermuda, abbiamo costruito un castello medievale, lavori che abbiamo esposto nei musei, frutto di una straordinaria collaborazione interpersonale. In questo tipo di didattica tutti avevano un ruolo, una competenza, ciascuno tirava fuori del suo e devo dire che i miei compagni mi adoravano per le cose che sapevo fare. Ero felicissima quando c’era il laboratorio per tutti, perché lì mi sentivo parte attiva di un tutto, non ero giudicata per com’ero dal punto di vista estetico, ma per la bravura e la simpatia che sapevo trasmettere nelle cose che facevo. Sono stati momenti bellissimi. Dovevi disegnare i poligoni e io li avevo fatti di legno, tridimensionali, giravano stoffe diverse, giravano per tutti i compagni, era un metodo interattivo che serviva a tutti e io mi sentivo perfettamente inserita, ero parte viva di un mondo di cui mi sentivo protagonista.

Penso che i tuoi compagni dovrebbero ringraziarti

Ti posso confermare che ancora oggi ho rapporti bellissimi con i compagni delle Elementari e delle Medie, mentre alle Superiori è stato tutto un pochino più difficile, forse perché eravamo tutte femmine.

Elena, quanto conta il ballo nella tua vita e che cos’è per te

L’interruttore, che è scattato quando ero piccolina, viaggia molto nel mondo dei rapporti interpersonali. L’avere una compagnia, l’avere accanto persone che ti vogliono bene già ti fa sentire accettata in un contesto dove magari c’è anche lo sfrontato di turno. Diverso è il lavoro che devi fare su te stessa, si tratta infatti di tutta un’altra storia. Partendo dal fatto che hai superato il primo scalino, quello dell’amicizia, del farti accettare, tra l’altro imponendoti con la tua simpatia, la tua allegria, il tuo carattere forte, spesso come una tartaruga con la corazza, si è trattato poi di affrontare l’altra parte, quella di raggiungere gli obiettivi che ti sei prefissata. Nella prima parte è stato fondamentale il gruppo, nel quale mi sono sentita amata, desiderata, protetta, soprattutto quando magari incontravo le incomprensioni della gente. Essere da soli in certe situazioni non è facile. Credo di poter affermare che la danza arrivi proprio al momento giusto, quando dovevo fare un lavoro lungo, viscerale, interiore, su me stessa, per trovare la via d’uscita. Il lavoro individuale è senz’altro il più doloroso, sei tu da sola davanti allo specchio, alla ricerca di quelle risposte che potrebbero dare una svolta importante alla tua vita. Quante domande mi sono posta, quanti interrogativi senza risposta, quanti momenti di silenzio e di riflessione. C’è quella parte di femminilità che si fa strada e con la quale devi fare i conti: lo smalto delle unghie, il trucco, la pettinatura, ti proietti in campi e situazioni diverse, senti che hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te. Devo dire che Sara Picciolo, la mia parrucchiera personale, è stata non solo una straordinaria parrucchiera, ma mi ha fatto sentire la bellezza di essere donna anche nella mia condizione estetica, con le sue premure, il suo spirito materno, la sua bravura nel farmi apparire bella agli occhi del mio pubblico e più sicura di me.

Elena, tu sei una bravissima ballerina e tra l’altro con un bellissimo corpo, come è stato il tuo rapporto con i maschi?

Mi adoravano e il mio primo morosino l’ho avuto all’asilo. Alle medie ne ho avuto uno che mi ha lasciato la vigilia di Natale e sono rimasta malissimo. Sono rimasta malissimo non tanto perché mi aveva lasciata, ma per come lo aveva fatto, lasciandosi influenzare dal giudizio dei suoi amici che, guarda caso, alla fine sono diventati anche i miei amici. Ecco, a questo punto posso dire con tutta fermezza che non tollero l’ingiustizia, l’amore per la legalità e per la lealtà sono valori che ho ereditato dalla mia famiglia e che legittimo sistematicamente nella mia esperienza personale. Mi arrabbio non solo se un’ingiustizia viene perpetrata nei miei confronti, ma la stessa cosa vale per gli altri, per tutti coloro che la devono subire. Capita in alcune occasioni che la gente metta in dubbio la tua onestà, il tuo modo di essere, la tua condizione, ecco, queste sono le cose che mi fanno più male, quelle che ti fanno capire quali profondità tocchi la cattiveria umana, ma d’altro canto ho anche imparato a difendermi, a lottare, a dimostrare sul campo chi sono, come sono, cosa faccio e come lo faccio. Il pubblico mi ha sempre aiutato, la gente capisce tutto, sa qual è l’impegno che stai mettendo in quello che fai e ti sostiene, ti fa sentire il suo calore, la sua riconoscenza e qui ti rendi conto che anche l’illazione più invidiosa e nefasta naufraga nell’entusiasmo di chi ti vuol bene.

La danza bendati, con Anthony, cosa fa capire?

La danza mi ha cambiato la vita, mi ha fatto conoscere in una veste completamente nuova, in cui il giudizio riguardava soprattutto la bravura con cui sapevo fare certe cose. Sono uscita da un giudizio puramente estetico, quello che mi aveva in qualche caso fatto soffrire e sono entrata in un altro ordine, dove ciò che vale è quello che sai fare, la bravura e la professionalità con cui esegui il tuo lavoro. E’ incredibile come a prima vista la gente rimanga smarrita e poi venga a farti i complimenti per le emozioni che hai saputo distribuire. Ho imparato molto da questa situazione, la vita mi ha fatto capire che non bisogna mai demordere o demolire e che bisogna assolutamente credere e avere fiducia nei doni che hai ricevuto e che altri non hanno. Con Anthony, il mio compagno, ho trovato quell’intesa di cui avevo bisogno per continuare a essere me stessa, con lui si è rafforzato l’impegno educativo e formativo della danza, quell’impegno che significa dare e ricevere emozioni, dimostrare sul campo che la vita non finisce con una condizione di disabilità, ma ha ben altre risorse su cui appoggiare la sua voglia di vivere. La danza bendati, che eseguiamo, è anche questo, far capire che il buio può essere una condizione apparente, anche utile e formativa, capace di ricreare un percorso sulla conoscenza di noi stessi e di tutte quelle qualità che nella maggior parte dei casi abbiamo, ma non siamo stati educati a cercarle e a tirarle fuori. Credo di poter parlare di un metodo, di una filosofia di vita, di un insegnamento, di un percorso che è utile per ricomporre quel mondo delle emozioni che la disabilità in qualche caso affossa e distrugge e che può essere utile per tutti, non vedenti e vedenti e oserei dire per tutti coloro, giovani compresi, cha hanno bisogno di crescere con una maggiore fiducia in se stessi, nelle cose buone che portiamo dentro e che alla fine sono quelle che ci fanno fare il salto di qualità

Elena come ti giudichi?

Una donna che non si crea problemi, che sa quello che vuole dalla vita, che sa mettersi in gioco. Ho fatto corsi, ho lavorato con Roberto Re, ho lavorato per rafforzare il piano motivazionale, ho letto, con Anthony, diversi libri sulla programmazione linguistica, sulla capacità di studiare e capire le persone. Cerco sempre di migliorare, di approfondire, di allargare la mia forza sensoriale, mantenendo uno stretto legame con la gente, con quel pubblico che mi apprezza e mi sostiene sempre in qualunque parte del mondo.

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