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Parole

RANCORE 1.0

MARGHERITA GIROMINI - 07/12/2017

rancoreChe parola triste, rancore.

Basta pronunciarla, o anche solo pensarla, e ti assale un retrogusto amaro.

Rancore ha la sua radice etimologica nel latino “rancēre”, essere guasto, essere acido. Rimanda l’idea di qualcosa che si è deteriorata irreparabilmente e perciò viene respinto, in quanto sgradevole, dai nostri sensi.

Il Censis nella sua annuale fotografia ha rilevato l’emergere del rancore, un sentimento che avvelena cuore e anima. Subito ne hanno ragionato e disquisito in tanti, in primo luogo i sociologi: difficile essere in disaccordo con le loro analisi.

Ma la domanda che preme, almeno a me, è: perché, e in quale momento, ci siamo ammalati di rancore, inficiando il mito del buon carattere di allegri abitanti del paese del sole e del mare?

Dove è finito il proverbiale ottimismo mediterraneo?

Povertà, declassamento della classe sociale a cui pensavamo di appartenere, lavori sempre più precari, liste d’attesa nella sanità, figli sempre meno realizzati, e l’elenco può allungarsi se vogliamo mettere evidenza i mali, cronici e acuti, della nostra collettività.

L’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici

La colpa? Della politica. Lo dicono opinionisti ed esperti tuttologi, colpa della politica che cavalca il rancore e non offre alcun orizzonte alternativo, della politica che ha tradito l’ascolto e le aspettative della parte sana e propositiva della comunità.

Anche le cose buone che sono state fatte vengono percepite come atti compiuti dai politici e dagli amministratori per dovere e concesse “senza cura”, azioni che non hanno minimamente scalfito le disuguaglianze. Tanto è vero che il divario tra chi guadagna tanto e chi guadagna poco o niente si è ampliato comunque. Dunque, né i bonus né il Rei, il reddito di inclusione, riescono a sanare le ferite di chi si sente povero e oggetto di una scarsissima attenzione, e che di frequente percepisce se stesso come socialmente invisibile.

Il rancore diffuso è una mescolanza di rancori presenti ormai in diversi gruppi sociali che possono entrare in conflitto gli uni con gli altri nella lotta per uno spazio di sopravvivenza.

Se è così diffuso da essere registrato ufficialmente dall’Istituto di Statistica, forse siamo di fronte a una profonda mutazione del nostro immaginario collettivo.

Questo fenomeno mi inquieta. Sarà perché il rancore mi appare come un sentimento doloroso e desolante, che si sviluppa nel chiuso delle esistenze che ne sono colpite per avvilupparsi su se stesso, nella solitudine di soggetti esacerbati.

Lo spiega anche la psicologia: è il risultato dell’incistarsi di una rabbia ripetutamente sperimentata, che quando diventa intossicante produce un effetto pervasivo sulla personalità e sulla salute psico-fisica. Nel suo strato più sottile cela spesso un’invidia profonda, il desiderio insoddisfatto di entrare a far parte di un sistema politico, economico, sociale, istituzionale che gestisce il potere, tanto esteriormente disprezzato quanto irraggiungibile.

Chiediamoci allora che cosa possiamo fare, quali sono i mezzi e i modi per alleviare la rabbia sia individuale sia sociale, prima che diventi rancore, prima che soffochi chi la prova, prima che imploda.

Pensiamo ai gesti che servono, se non per guarirla, almeno per lenirla, questa dolorosa afflizione.

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