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Souvenir

TAFFETÀ FUCSIA

ANNALISA MOTTA - 07/12/2017

fucsia3Fortuna da non credere! Un invito alla Scala, a una serata d’opera– o era un balletto? – da lontani parenti milanesi che pagavano per rappresentanza l’abbonamento a un palco laterale, sfruttato con riconoscenza e devozione dai miei più modesti zii, fans esagitati di Mario Del Monaco e Franco Corelli. Nell’emozione dei preparativi, il primo problema da risolvere fu: come ci vestiamo?

La mamma aveva un bell’abito di raso color tabacco con pizzo in nuance, collaudato nientemeno che a un gran ballo in Danimarca (unico viaggio di lavoro del papà al quale anche lei aveva partecipato). Ma per la ragazzina – cioè io – che si fa? La Standa aveva appena aperto i battenti a Varese, in quell’orribile palazzo squadrato che ancor oggi stride accanto agli eleganti edifici d’epoca: subito scartata, perché inadatta all’occasione. Quindi, la sarta.

Non c’era in effetti molto da scegliere, in quegli anni. Gli abiti, o li cuciva la mamma, o la zia, o la nonna; o si ricorreva all’unico negozio per signorinette del centro, elegantissimo ma inaccostabile; oppure alla sartina del quartiere, che in un’unica stanza zeppa di ritagli nastri grosgrain fettucce spolette sbiechi imbottiture gessetti e puntaspilli conciliava la vita di famiglia con l’arte della “couture”.

Ricordo che fin da piccola sarta e mamma mi costringevano a “fare le prove” dei rari vestitini eleganti, e gìrati di qui e gìrati di là, aspetta che ti metto uno spillo dài non avere paura che sto attenta. E questa tremenda abitudine di sfilare le gonne dall’alto, non dai piedi come facevamo a casa, con i fatali graffi sulle braccia perché gli spilli, anche ben piazzati, pungono comunque. Unico divertimento, quando la loro traboccante scatola si rovesciava, guardare a bocca aperta la magia della calamita che in un batter d’occhio attirava sotto la sua pancia, come chioccia materna, tutti i frammenti metallici sparsi sul tappeto: aghi, spilli, gancetti, automatici, spille da balia…

Dopo consulti non facili, la scelta per la serata cadde sulla stoffa più speciale che un’adolescente di allora potesse sognare: un taffetà di raso fucsia per l’abitino, con corpetto semplicissimo e gonna a cannoni – da gonfiare con idonea sottoveste multistrato – e pizzo in tinta per la giacchina corta, con bordi in raso e un romantico fiocco a chiudere il collo. Ci credete, che l’ho ancora in solaio, quel vestito da favola?

La serata a teatro non la ricordo affatto, troppe novità in un pugno di ore: l’odore di antico, i velluti esagerati, i commessi in livrea, gli abiti lunghi e i ventagli, il silenzio irreale al calar delle luci…

Ma ricordo bene il traguardo conquistato per la prima volta nella mia vita: indossare calze di nylon e reggicalze, al posto dei goffi infantili calzettoni al ginocchio.

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