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Ambiente

FUTURO “COLLABORATIVO”

ARTURO BORTOLUZZI - 15/12/2017

carpoolingNel 2002 un quotidiano di Varese aveva lanciato la proposta di fare dell’Avt un’azienda che fosse artefice di un progetto di Car sharing comunale. Nessuno, in ambito pubblico, ha coltivato questa proposta. Io l’ho applaudita ma, malgrado ciò e il mio scrivere al Comune per spingerla (ho rinnovato questa proposta anche nel 2004 quando venne decisa la riduzione del capitale dell’azienda), non abbiamo mai trovato nessuno che l’abbia voluta sposare. Sarebbe (quella della mobilità sostenibile) una iniziativa importante che il Sindaco del Comune di Varese insieme all’Assessore alla Tutela ambientale porti in avanti, soprattutto in questo momento in cui siamo assediati dalle polveri sottili adottando oltre al Car sharing, possibilmente anche con auto elettrica, anche il Car pooling.

Prima di noi è arrivata Seveso (lo ho già ricordato al sindaco senza avere da lui risposta) che ha voluto coinvolgere i propri cittadini con lettere e attraverso il proprio sito Internet. È partito «Stoppiamoci»: il primo progetto di car pooling su scala comunale in Lombardia voluto dal sindaco Paolo Butti.
L’idea è stata di convincere il maggior numero di cittadini a unirsi e utilizzare una sola macchina con più persone a bordo per andare al lavoro, a scuola o a fare shopping.

A Varese hanno ripreso a essere moltissime le automobili appena acquistate. Ci vorrebbe davvero una chiara presa di posizione da parte di chi regge il Comune.

È vero che l’automobile è considerata una sottospecie di status symbol del quale il varesino fa fatica a privarsi. Bisogna che il Comune di Varese consideri, però, con lungimiranza, come in futuro si dovranno avere meno auto in proprietà e più auto condivise.

Non soltanto, facendo ciò, il Comune opererebbe una scelta giusta, ma potrebbe guadagnare fondi per sostenere i bisogni di cui necessiterà per sostenere le necessità primarie del corpo sociale. Il Comune è bene che si attrezzi, discutendone con il corpo sociale interessato, ad assumere provvedimenti per realizzare governare appieno la “Pooling economy” come la definisce l’Espresso.

Anche il Sole 24 ore analizza come lo scambio sia divenuto tra i cittadini un comportamento assolutamente normale.

Si può vivere senza la macchina. E sono sempre più numerosi gli italiani che se ne liberano. In Europa gli italiani sono secondi soltanto ai tedeschi per l’utilizzo del car sharing, con Milano in testa, seguita da Roma e Torino, in base a una recente analisi di Frost & Sullivan. L’alta densità abitativa è uno dei motivi principali della rapida crescita del car sharing: ci sono 43 città italiane con più di 100mila abitanti e dieci con più di 300.000, dove ormai è diventato normale non avere la macchina.

Ma si tratta anche di una svolta generazionale. In ogni caso, è il primo segno di un’importante trasformazione in corso nella società italiana verso un modello di sviluppo più aderente all’economia della funzionalità, rispetto all’approccio tradizionalmente consumista seguito fino alla grande caduta degli anni della crisi. Il mito del possesso tipico dei Baby Boomers si sta trasformando, se possibile, mutando i prodotti in servizi, con un notevole salto nella scala dell’efficienza del sistema.

Da qui nasce il boom dell’economia della condivisione, non solo nei trasporti ma anche nelle abitazioni e perfino negli abiti firmati, negli alimentari o negli attrezzi per il fai-da-te. Se pensiamo che i Millennials saranno 2,3 miliardi di persone nel 2020, la metà della forza lavoro globale, possiamo immaginare la crescita del fenomeno in prospettiva.

Le catene del valore, in parte, si sono già trasformate. Nella sua ultima mappatura, riferita al 2016, Collaboriamo.org ha censito ben 138 piattaforme collaborative sul mercato italiano (di cui 27 straniere con uffici in Italia), in crescita del 17% rispetto all’anno precedente. Oltre ai trasporti, l’ambito in cui si concentra il maggior numero di piattaforme italiane (18) è proprio il settore dello scambio, affitto e vendita di oggetti. I servizi che permettono di vendere oggetti usati, come Bakeka, Secondamano e Subito, sono quelli più noti al grande pubblico, ma ce ne sono altri, come LocLoc o Useit, che permettono di affittare ogni genere di bene, mentre Sharewood è specializzata nella condivisione di attrezzature sportive.

Nell’abbigliamento sono attive MySecretDressingRoom, che offre vestiti di marca a noleggio, Babybrum, specializzata nel noleggio di abbigliamento e oggetti per bambini, e Armadio verde, che permette lo scambio di abbigliamento usato per bambini.

 Il settore più in crescita, però, è quello dei servizi alle imprese, dove le piattaforme sono raddoppiate in un anno, da 6 a 12, “a dimostrazione del fatto che anche le aziende, ormai, conoscono l’economia collaborativa”.

Le logiche collaborative, nel frattempo, trovano seguaci anche tra le aziende tradizionali: Leroy Merlin, ad esempio, ha attivato in Italia una rete di aiuto mettendo a disposizione una “borsa cantiere”, che comprende sia i materiali necessari ai lavori sia l’expertise dei propri collaboratori.

 Finita la ristrutturazione, però, i beneficiari dovranno a loro volta attivarsi in un’iniziativa analoga presso altre abitazioni o strutture di accoglienza, creando così una sorta di circolo virtuoso di sostegno.

L’economia della condivisione, del resto, è solo all’inizio. Uno studio dell’Università di Pavia, curato da Luciano Canova e Stefania Migiavacca, ha calcolato in 3,5 miliardi di euro il suo volume d’affari in Italia, ma nel 2025 potrebbe valerne 14 e nella migliore delle ipotesi superare i 25 miliardi. Una prospettiva che definisce la circolarità come volano fondamentale per la crescita futura dell’economia italiana.
Sul fronte delle sharing city, infine, qualcosa si muove anche in Italia, soprattutto a Bologna, Milano e Torino, ai primi tre posti nella classifica Ernst&Young 2016 delle città più smart.

 Il Comune del capoluogo lombardo ha stanziato 400mila euro per idee in grado di migliorare la città e lanciato un progetto di crowdfunding civico attraverso la piattaforma web Eppela, per sostenere 21 progetti.
A Torino, invece, è nato Living Lab, spazio urbano nel quartiere Campidoglio per mettere alla prova soluzioni tecnologiche condivise tra enti pubblici, partner privati, enti di ricerca e società civile; a Bologna, si sta sperimentando la collaborazione fra cittadini e amministrazione per i beni comuni urbani nell’ambito del progetto “Bologna città collaborativa – CO – Bologna” della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Finora sono stati siglati oltre 200 patti di collaborazione in campi diversi: manutenzione civica degli spazi urbani, rigenerazione delle periferie, creazione di nuove forme di solidarietà.

Sulla spinta di un regolamento varato a Bologna nel 2014, materialmente scritto dall’amministrazione del Comune di Bologna in collaborazione con Labsus, Laboratorio per la sussidiarietà. Il testo è stato adottato da circa 90 Comuni in Italia (tra cui recentemente Torino) e circa altri 100 lo stanno per approvare.

Invierò un nuovo sollecito in Comune. Sarebbe insensato non prendere in considerazione questa opportunità (sviluppo della mobilità condivisa). Vorrei anche che il sindaco aderisse alla carta riguardante il Laboratorio per la sussidiarietà, facendosi sentire con il sindaco di Bologna. Non mi dispiacerebbe per nulla che la Giunta comunale deliberasse, poi, proposte di condivisione con cittadini, università, privati, associazioni (governando il territorio) dando così vita a progetti comuni.

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