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Stili di Vita

SCAMBIO

VALERIO CRUGNOLA - 22/12/2017

6091844 - portrait of happy siblings exchanging christmas gifts at homeIl periodo natalizio si piega al consueto tormentone: «A chi farò un regalo? Cosa regalerò?». La mia scarsa fantasia è ansiogena, ma il dono in sé mi piace e al dunque il «cosa» e la «circostanza» non sono rilevanti rispetto al «chi». Come ogni anno ho redatto una «lista» di persone cui voglio bene o alle quali desidero attestare gratitudine o apprezzamento che posso raggiungere grazie a frequentazioni stabili. Resto attaccato alle leggende edificanti dello spirito natalizio di cui avevo letto da piccolo su Topolino e poi da ragazzo con il Christmas Carol di Dickens. È il tempo, ci si diceva, di «essere buoni»: più amorevoli e più generosi con gli altri.

Non tutti la pensano come me. Molti rifiutano un obbligo imposto ai loro occhi dal dio Mercato e perciò estraneo ad ogni piacere. Sono le stesse persone che rifuggono l’obbligo di divertirsi la notte di Capodanno, il Carnevale, la settimana di Ferragosto e ‒ al colmo dello squallore ‒ la notte di Halloween. Conosco queste posizioni: per decenni sono state anche le mie. Ma Natale non si lascia eludere. Sono state molte, in passato, le volte in cui ho trascorso le feste in viaggio, disertando il dovere e il piacere delle relazioni familiari. L’abitudine di peregrinare di casa in casa tra la cena della vigilia alla cena degli avanti di Santo Stefano si era spenta lentamente con la scomparsa prima delle nonne e poi dei genitori. Ora non diserto più: le occasioni si riducono, i malanni avanzano e il tempo per testimoniare affetto si restringe di pari passo. Non posso più sciupare, rinviare quel tempo. Allo stesso modo, cerco di concentrare nel periodo delle feste il maggior numero possibile di attivazione delle mie relazioni amicali. La domanda è sempre la stessa: «Se non ora, quando?».

Non riesco a non domandarmi se i miei comportamenti nelle festività siano conformi a un valore o se siano invece un cedimento a un diffuso conformismo. Non ho risposta e non mi credo migliore di altri. Ma una via per uscire dal dilemma esiste. Sì, «consumiamo»; ma non per questo siamo ingenerosi. Nel dono consumo e generosità sono complementari, non opposti.

È vero: il Natale è diventato il trionfo idolatrico dello spreco. Quando tutto è a disposizione, il bisogno diventa il superfluo. Il Natale inizia a novembre e finisce a gennaio. Le città si riempiono di luminarie, i negozi e le case di addobbi, ma non c’è alcuna festosità in questi riti. Il nostro immaginario colonizzato ha prosciugato i nostri sentimenti più semplici. Si «fa finta»: una pratica esistenziale diffusa e ormai globalizzata. È la costrizione a mostrarci felici, premurosi, gentili. Oggi possiamo farlo in modi più vaghi ma meno opprimenti. Il mondo virtuale ci esonera dal trovarci faccia a faccia, e i suoi geroglifici ci esimono dal trovare parole di circostanza. Con zelante fretta «sbrighiamo una pratica», anche verso persone con le quali non abbiamo avuto dense relazioni nella realtà, o che intimamente non stimiamo. La reificazione del Natale si traduce nel timbrare un cartellino.

Ma qui troviamo l’indizio di un diverso punto di vista. Eviteremmo di timbrare se sapessimo di poterci sottrarre. Ma portiamo memoria dell’antica autenticità del dono e della miseria dell’ingenerosità di sé, che è poi oggi la vera avarizia, e ci pieghiamo alla reificazione per non percepire il lieve soffio di un senso di colpa.

Meno salda è l’origine dei riti natalizi. La narrazione della nascita di Gesù ‒ figlio di due fuggiaschi, nato in condizioni precarie, in un riparo di fortuna, in stato di povertà, sotto l’incombente minaccia della persecuzione ‒, sembra riguardare pochissimi. La «buona novella» passa in secondo piano rispetto al travisamento mercantile del racconto dei Magi che portano regali in un rigido inverno nella terra di Israele. L’Epifania coincide con l’apertura anticipata dei saldi. Insomma, il periodo a cavallo tra dicembre e gennaio è uno dei tempi del tributo (non a Dio né a Cesare) che accompagnano la nostra vita: un dovere non meno faticoso di altri e ‒ quel che conta ‒ senza gioia.

Ma il Natale è solo questo? Credo di no. Per procedere, dobbiamo distinguere sul piano etimologico il regalo dal dono. In origine il «regalo» consisteva in un omaggio materiale dei sudditi al re, il quale ricambiava in modo immateriale con la sua presenza, incomparabile perché «augusta» (dal latino augere, accrescere). Il «dono», al contrario, è ciò che si dà o riceve senza che sia necessaria una qualche restituzione. Il primo accompagna una temporanea «subordinazione» metaforica, e ben si esprime nell’atto del «rendere omaggio», oggi perlopiù in modo augurale: l’omaggio agli sposi, a chi nasce, a chi compie gli anni, a chi invita nella propria casa. Il secondo non contiene né un «valore d’uso» né uno «di scambio», bensì un valore di legame, e come tale inapprezzabile («senza prezzo») nel suo significato simbolico.

Regalo e dono hanno a che fare con la sfera dell’intenzionalità. Le intenzionalità non sempre si rendono leggibili se gli atti che dovrebbero manifestarle sono conformi a tutte le altre possibili intenzionalità. Essa traspare solo nella narrazione che ciascuno costruisce per se stesso. Ma se l’intenzionalità risponde a una disposizione della coscienza, il comando della ragione prevale sul gesto libero nato dal desiderio di esternare un affetto non necessariamente reciproco.

Il regalo è forse l’intenzionalità più ambigua: spesso è una forma di marketing o un modo per «tenersi buono» qualcuno. Tuttavia, persino le strisce di Disney, il racconto moraleggiante di Dickens e il dominante paganesimo natalizio ci parlano del dono e ci interrogano sul suo significato.

La riflessione filosofica sul dono ebbe inizio nel 1924 con un saggio dell’antropologo francese Marcel Mauss. Il rigore delle osservazioni e la bravura nel restituirci i vincoli oblativi tra alcune popolazioni dell’Oceania non gli evitarono il rischio di idealizzare un sistema societario che avrebbe fatto del dono il perno delle sue strutture e funzioni. Sulla scia di Mauss sono entrate in voga ulteriori idealizzazioni. La più nota è la profezia di Serge Latouche, ricca di spunti belli a leggersi ma poco convincenti in ultima istanza. Quando Latouche vede nel dono una rete alternativa alla circolazione di beni e servizi mediante le allocazioni distributive del mercato e quelle riallocative dello Stato, coglie un bisogno vero. Ma alla fine il suo è un appello ad una conversione palingenetica sull’orlo della catastrofe cui ci sta conducendo lo sfrenato liberismo del capitalismo globalizzato. La catastrofe è un rischio reale da cui guardarsi, ma le palingenesi non esistono o falliscono.

In Mauss il dono è l’impronta significante, destinata a restare, della relazione del donatore verso il ricevente. Questo segno, insieme disinteressato e interessato, invoca reciprocità: non l’equivalenza nello scambio di oggetti, nell’utilità o nel gradimento, bensì la corresponsione della medesima relazione da parte del ricevente. In particolare, il percorso circolare e ciclico che conduce dalla donazione alla «restituzione» attraverso l’atto del ricevere è il movente dello scambio che eccede il mezzo. Dono e controdono non sono l’effetto di un baratto, di un contratto, di un tacito patto o di un procedimento rituale prescritto dalla tradizione, ma la duplice personificazione del donatore e del ricevente. Il «debito» (la «promessa» ‒ per giocare con un proverbio ‒ di corresponsione all’atto del ricevere) non è un obbligo convenzionale, ma un impegno a conservarsi nel rapporto in un percorso circolare aperto che di volta in volta, di passaggio in passaggio, non solo riconferma e rinnova ma arricchisce chi è parte dell’intero processo.

Karl Polanyi si è preoccupato di mediare il principio del dono di Mauss con la logica della produzione: il dono, anche quando segno di relazione, risulta socialmente utile perché consolida quei legami impersonali che sono alla base di ogni attività produttiva a carattere societario, e non solo in termini di fiducia ma altresì di scambi che generano sviluppo.

In un’altra direzione si sono mossi Johan Huizinga e Georges Bataille. Il primo pone la pratica dello scambio di doni tra i nativi di alcune aree dell’America settentrionale ‒ il potlatch ‒ a fondamento del suo Homo ludens. Con qualche azzardo si può tradurre ludere con gioire della relazione: la competizione non è dettata da criteri economici ma è una gara di generosità che può spingersi sino alla rovina economica. Bataille fa del dono una dépense, un dispendio agonistico che sottrae alcuni beni dal regime dell’utilità e dal profitto connesso al ciclo produttivo. Anche le pratiche improduttive sono indispensabili alla vita sociale: l’edonismo, l’ozio creativo, la festa, l’arte, la scrittura…

Difficilmente oggi possiamo sfuggire alla produttività del dono e al suo darsi come «regalo di una merce». Ma non possiamo non interrogarci sul futuro della gioia dell’oblatività che è tracciata nella nostra memoria e sul valore dell’improduttività.

Vi è un grande bisogno di dépense. Qui l’utopia di Latouche si laicizza. Un’economia oblativa fondata sulla gratuità dello scambio può tradursi nel dono del proprio tempo: un dono che facciamo a noi stessi, alle persone care, ad altri e alla natura intesi come prossimità (questa comunità, ad esempio, che condivide quest‘aria, questi boschi, queste acque). Auguriamoci un futuro con meno tempo per un lavoro coatto e sempre più schiavizzato e con più tempo per noi stessi, per le relazioni affettive interumane e per le pratiche di cura e di solidarietà. Non occorrono palingenesi e rigenerazioni per rendere possibile per tutti e a tutti questo tipo di «natale». Servono correzioni avvedute ma mosse dalla gioia di un impegno condiviso per stare tutti meglio in egual misura.

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