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Presente storico

VIOLENZE

ENZO R. LAFORGIA - 12/01/2018

Strage al Bataclan

Strage al Bataclan

Ho dato un’occhiata alle date di nascita dei miei studenti. I più “vecchi” tra loro sono nati tra il 1998 ed il 1999. Tutti, cioè, si sono affacciati alla vita e al mondo all’inizio di questo nostro terzo millennio. La loro generazione è molto più “mobile” delle precedenti: è fisicamente e culturalmente proiettata in una dimensione globale. Tutti i miei studenti sono connessi materialmente e virtualmente con tutto il mondo. Possono cogliere ciò che accade in ogni angolo del mondo in presa diretta. Non hanno conosciuto i limiti rassicuranti e i tradizionali ancoraggi sociali, che hanno definito l’esistenza di donne e uomini nel corso del Novecento. Ed il futuro, un tempo scenario su cui proiettare utopie e speranze, non sembra loro particolarmente appetibile. Anzi, talvolta sembra incutere paura. La generazione di coloro i quali sono nati e vivono in un mondo globale sembra piuttosto condensarsi in un eterno presente.

All’inizio di questo anno scolastico, mi sono trovato a commentare con i miei studenti l’attacco terroristico che si era consumato a Barcellona il 17 agosto scorso. Nel cuore della città catalana, un furgone si era immesso a tutta velocità sulla via principale, affollata di turisti, travolgendo i passanti e provocando 16 morti e 120 feriti. Anche questo ennesimo evento drammatico è stato ricondotto al terrorismo religioso promosso da gruppi di fondamentalisti musulmani.

I miei studenti, da quando sono nati, hanno dovuto imparare a convivere con una nuova forma di violenza, diffusa e imprevedibile, e con il sentimento di insicurezza che essa ha alimentato e alimenta. Dal 2001 al 2017, le vittime del terrorismo sono state, solo in Europa, più di 600. Il terrorismo, in questi sedici anni, ha colpito in città come Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles, Istanbul, Wurzburg, Ansbach, Rouen, Berlino, Manchester, Copenaghen, San Pietroburgo, Stoccolma. Molte di queste sono mete tradizionali del nostro turismo scolastico e in alcune di queste vi sono scuole che ospitano i miei studenti ed i miei colleghi.

All’inizio di questo anno scolastico, inevitabilmente ci siamo trovati, i miei studenti ed io, a riflettere su quel fenomeno che siamo abituati a sentir definire “terrorismo”, sulla sua natura, sull’impatto che eventi ascrivibili alla categoria di “attentati terroristici” producono sulla nostra vita individuale e sulla vita delle nostre società.

La filosofia, in questo caso, ci è venuta incontro. I filosofi si sono occupati, nel corso del tempo, della violenza politica o del terrorismo (Jean Baudrillard, ad esempio, se ne occupò negli anni Settanta, intervenendo sul «Corriere della Sera» a proposito del sequestro di Aldo Moro). In anni più recenti, e a partire proprio dall’11 settembre 2001, sono nate vere e proprie «filosofie del terrorismo».

Su questo tema, è uscito di recente un importante volume della filosofa Donatella Di Cesare: Terrore e modernità, Torino, Einaudi, 2017. Il titolo richiama alla memoria il saggio di Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, del 1989. Così come la Shoah è stato un prodotto della modernità, del suo modello di organizzazione del lavoro, della sua cultura burocratica e della evoluzione e invasività della sua tecnologia, così il terrorismo, con cui oggi siamo costretti a fare i conti, «appare il sintomo di una patologia autoimmunitaria di cui è portatrice la modernità». Nel senso che il terrore «è la spia di una resistenza alla mondializzazione».

Non viviamo oggi in uno stato di guerra, ché la guerra, come spiega la Di Cesare, è uno scontro armato, giustificato da un obiettivo politico, condotto sulla base di regole, alla fine del quale si perviene ad una pace, benché provvisoria e precaria. Il nostro mondo, invece, sembra essere entrato in una fase storica contraddistinta da «stati di violenza» (Frédéric Gros). Ciò che, sbrigativamente e con molte ambiguità, oggi definiamo guerra globale, fissandone l’inizio con l’attentato al cuore degli Stati Uniti, è «uno stato permanente di violenza che minaccia di perpetuarsi all’infinito», è «un processo cronico», che si è espanso a tutto il pianeta e di cui non si può prevedere la fine. Se di guerra si deve parlare, è una guerra nuova, rispetto a quelle che studiamo sui libri di scuola, è la prima guerra globale, la prima guerra civile globale. Uno stato di violenza, che non conosce confini, in cui i civili non sono solo le vittime ma protagonisti ed è intermittente.

Iniziando a leggere il libro di Donatella Di Cesare, mi è venuto in mente l’incipit di Sorvegliare e punire di Foucault (1975). Il filosofo francese iniziava il suo studio sulla nascita della prigione con la descrizione, cruda e terribilmente vera, del supplizio di Robert François Damiens, alla fine del 1700. Di Cesare apre la sua riflessione con la descrizione, cruda e terribilmente vera, della strage parigina del 13 novembre 2015, che ebbe come epicentro la mattanza consumatasi al Bataclan. In questo caso, la tecnica del terrore non è messa in atto dal potere per esercitare il dominio, ma è esibita, trasformando in arma il proprio corpo, nel nome di una guerra globale contro un nemico assoluto. Questa nuova violenza, ci ha sbattuto in faccia lo strazio dei corpi, che avevamo voluto allontanare dal nostro orizzonte pacificato, ha annullato la distanza tra il nostro occhio e l’effetto della violenza, cui ci aveva abituato la tecnica applicata alla distruzione di massa. Ha fatto emergere tutta la nostra vulnerabilità.

«Il terrorismo – scrive ancora Donatella Di Cesare – è strettamente connesso con la globalizzazione, di cui non è solo l’effetto, ma anche, in certo modo, il vettore trainante. Se da un canto proclama il suo “no” al pianeta unificato, dall’altro, però, fa saltare i confini, annulla le differenze: tra guerra e pace, tra militari e civili, emergenza e normalità. Il terrorista è un agente d’ibridazione. La macabra scena dell’autoesplosione è fortemente simbolica: deflagrando il “martire” frammenta le membra proprie e altrui, provoca un miscuglio di sangue e corpi, sino a impedire l’identificazione. Confonde, dissimula, mimetizza l’identità».

Effetti collaterali – o conseguenze dirette – del terrorismo globale sono le scomposte reazioni securitarie da parte di ciò che resta degli Stati-nazione, che, per ricomporre la relazione con i cittadini, cercano di convogliare la paura verso l’ostilità nei confronti di un nuovo nemico, indicando il bersaglio dei nuovi invasori o prospettando uno scontro di civiltà. Da qui, conclude la Di Cesare, «la smisurata reazione autoimmune con cui, per eliminare il virus, finisce per dilaniare il proprio corpo, per ledere la vita dei cittadini».

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