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Società

IN PIEDI!

GIOIA GENTILE - 12/01/2018

prof“Non avete visto che è entrato un insegnante?”. Voce tonante, sguardo truce – per quanto possibile -, mi fermavo sulla porta dell’aula ed aspettavo. Allora gli studenti, fino a quel momento impegnati in rumorose scorribande, tornavano, uno alla volta, ai loro posti e restavano in piedi. Dicevo proprio “entrato un insegnante”, al maschile – con buona pace di chi preferisce sindaca, assessora o ministra – perché volevo fosse chiaro che dovevano rispettare non tanto me, quanto la funzione che svolgevo. A quel punto, con calma, raggiungevo la cattedra, mi accertavo che davvero tutti fossero in piedi e in silenzio, e solo allora dicevo “Seduti”. Lo facevo ogni volta che entravo in una classe non mia per una supplenza. Nelle mie classi non ce n’era bisogno: erano già abituati a comportarsi così.

Ultimamente si è riaperta la polemica, ciclicamente ricorrente, sull’opportunità di questa regola. Sono riapparsi i benaltristi: “I problemi sono ben altri”. “ Un ‘buongiorno’ basta e avanza. La scuola non è una caserma, o un luogo dove imparare il galateo”. Sembrerà strano, ma sono affermazioni di una docente e di un pedagogista comparse sul Corriere del 15 dicembre.

Che i problemi siano ben altri gli studenti lo capiscono perfettamente; infatti, a differenza di tanti docenti, non considerano affatto un problema alzarsi quando entra il professore. Istintivamente intuiscono che è giusto – anche se forse non sanno spiegarsi il perché – e che non è il caso di fare polemiche per una norma che non ha nulla di umiliante.

Le motivazioni di questo gesto sono state espresse con chiarezza e grande sensibilità da Ferdinando Camon in un articolo su Avvenire del 5 novembre: “Tra studente e professore esiste sempre una differenza di “sapere” e di ruolo, uno sa e dona il suo sapere, l’altro lo riceve e ringrazia per quel dono. Il ringraziamento si esprime con l’alzata in piedi”. I ragazzi non si alzano in piedi per te, ma “per quel che tu gli porti quel giorno.(…) Lo fanno per sé”.

Ma anche se fosse solo una norma di galateo, che cosa ci sarebbe di tanto sconvolgente? A scuola non si può imparare la buona educazione? La forma non è anche sostanza? Non è con i piccoli gesti quotidiani che si acquisisce l’abitudine al rispetto per gli altri, che poi è anche rispetto di sé? Quel che mi stupisce è che i ragazzi riescano a capire e a mettere in pratica comportamenti che gli adulti spesso si rifiutano di accettare. Certo, non vanno imposti, ma spiegati, fatti assimilare, insegnati quasi come un gioco.

Mi divertivo spesso ad inscenare una commedia semiseria quando uno studente, in ritardo la prima ora, entrava come un tornado e d’un fiato diceva: “Salve, scusi il ritardo”. Con aria perplessa rispondevo:”Non ho sentito bussare. Ragazzi, voi avete sentito bussare?” Pregustando la sceneggiata, la classe mi assecondava. “No – continuavo – nessuno ha sentito bussare. Adesso tu esci, chiudi la porta, bussi ed entri solo se e quando ti dico ‘Avanti’. Poi non dici ‘Salve’, ma ‘Buongiorno. Posso entrare?’”. A quel punto il malcapitato, a volte chiedeva: “Posso lasciare lo zaino in classe?”. “E no! Non sei ancora entrato, come fai a lasciare lo zaino?”. Allora usciva e seguiva diligentemente il copione. Era un gioco, in fondo, ma la volta seguente non c’era bisogno che spiegassi al ritardatario di turno come doveva comportarsi, lo faceva di sua iniziativa.

No, i ragazzi non si lamentano delle regole. Probabilmente in qualche modo oscuro avvertono che sono necessarie per crescere, che contribuiscono a creare sicurezza, che, infine, sono fatte anche per essere infrante, ma solo quando si sia acquisita la capacità di riconoscere ciò per cui vale la pena infrangerle.

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