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Cultura

NEL PENSIERO DI DERRIDA

LIVIO GHIRINGHELLI - 12/01/2018

derridaNato a El Biar (Algeria) Jacques Derrida (1930-2004) è stato docente di filosofia all’École Normale Supérieure di Parigi. Manifesta una critica aperta verso la fenomenologia e la psicanalisi, in quanto concepiscono l’essere come un’identità e una presenza originaria e tendono a ridurlo alla sua espressione linguistica, intesa come un darsi immediato della sua presenza, privilegiando in tal modo la parola come modalità di conoscenza (logocentrismo). Derrida invece, riprendendo in modo personale la nozione di differenza ontologica di Heidegger (irriducibilità dell’essere agli enti o alla loro somma) sostiene che l’essere è differenza, incommensurabile e irriducibile a qualsiasi forma di identità, perché già in se stesso differente da sé. Abbandona la ricerca di un linguaggio puro e originario, che consenta di cogliere l’essere nella sua pienezza. Se l’essere è costitutivamente una differenza, all’origine, non ci saranno mai una presenza e un’unità, recuperabili attraverso la parola, ma soltanto delle tracce, dei segni dell’essere, che è inattingibile come totalità.

All’origine del linguaggio non è la parola detta, bensì una scrittura originaria (archistruttura). Derrida capovolge la gerarchia, che fa della scrittura una funzione derivata dalla voce e secondaria rispetto ad essa. Ecco perché al posto della metafisica privilegia una scienza della scrittura (grammatologia), che fa accedere all’essere come differenza, che si dà nel carattere differenziale della scrittura stessa. La metafisica sino ad Husserl associa la verità all’immediata presenza dell’essere alla coscienza, in quanto significato che si rivela al soggetto nella forma privilegiata della parola. Con la vittoria del fono-logo-centrismo la scrittura appare come lettera morta, degradazione del parlato.

Il fonocentrismo è tipico della metafisica occidentale, asserzione della centralità della parola come messaggera dell’essere; per Derrida invece non è la voce, bensì la scrittura la vera presenza originaria nella sua costitutiva evidenza di scarto rispetto ad ogni linguaggio, di traccia vuota. La scrittura, come traccia di una vita passata, non può essere ridefinita nell’attualità della parola vivente.

Jacques Derrida sceglie la strada della decostruzione, in cui l’unità di senso non si dissolve nel vivo colloquio, ma nella trama di rapporti di senso, che sta alla base di ogni parlare: decostruzione che non va intesa come desiderio iconoclastico di impossibile distruzione del logos, bensì come volontà di disarticolare il sistema dei rimandi, di slegare l’unità verbale, per renderla consapevole dei propri condizionamenti, di quanto le impedisce di conseguire la verità e le autenticità assolute. Non bisogna abbandonare i condizionamenti della tradizione in favore dell’Autentico e dell’Originario, che si celerebbe dietro la varietà dei fenomeni.

Ogni ri-velazione è un velare di nuovo. Chi vuole rinvenire il senso proprio dietro il senso figurato ricade nella metafisica della presenza. Di ogni testo o situazione interpretata non possiamo venire a capo interamente, l’assoluta trasparenza li distruggerebbe. Identità e differenza, autoriferimento e allusione, si implicano originariamente a vicenda; nessuna esperienza può diventare satura, nessuna interpretazione esaustiva. Non si danno metafore assolute, che precedano il pensiero concettuale, nessuna metafora è in grado di uscire dal cerchio magico della “mitologia bianca”, che riflette la cultura dell’Occidente. Solo le differenze, le sfumature, le comparazioni consentono di vedere e di comprendere. La metafisica ha proceduto alla cancellazione della traccia (Heidegger: l’essere si sottrae mentre si dà). Derrida sembra comunque più interessato all’alternativa giusto/ingiusto che non a quella di vero/falso. La purezza della filosofia è un mito.

Il Problema della genesi nella filosofia di Husserl (1952-53) vede nella fenomenologia la possibilità di superare l’alternativa fra strutturalismo (tendenzialmente idealistico) e storicismo (tendenzialmente materialistico). Fra storia e struttura c’è complementarità, non opposizione (le strutture ideali non sono cadute dal cielo; hanno un’origine a cui non possono essere ridotte). Origine della geometria di Husserl (1962): Derrida osserva che in geometria l’idealismo pare obbligato. La verità geometrica risulta indipendente da qualsiasi condizione di fatto, ma la condizione dell’idealità sembra risiedere in qualcosa di materiale, come per esempio la scrittura. Con La voce e il fenomeno (1967) Derrida si distacca dalla fenomenologia: senza scrittura, senza tracce non ci sarebbe non soltanto la storia, ma nemmeno la struttura, l’idea; ciò che si chiama la struttura, o kantianamente trascendentale, la condizione di possibilità della conoscenza, è in ultima istanza una scrittura. Grammatologia (1967) : le categorie kantiane vengono trasposte nella nozione di archiscrittura. Così si giunge a una critica della ragione impura.

Il filosofo deve guarire da un sogno di purezza e compattezza, che si rivela limitato e autoritario. La decostruzione si rivela come immediata costruzione di qualcosa di diverso, vuole accentuare un aspetto costruttivo. Non si tratta di una semplice sostituzione di valori, che sono relazionali, non c’è bianco senza nero, né giusto senza ingiusto. In primo luogo va portata alla luce questa relazionalità (nella dialettica di Hegel il signore non esiste senza lo schiavo). La differenza è implicazione, complicità nascosta. Le coppie oppositive, che fanno parte della nostra vita, non esistono autonomamente, ma l’una in relazione all’altra; il tempo è chiamato a mostrare la complicità che sta sotto all’opposizione. Non si arriverà mai al sapere assoluto, all’ultima parola.

L’estetica si misura con l’interrogazione sulla morte, sulla traccia, sul vuoto di un senso che non è ricostruibile e che in ogni testo viene occultato. L’estetica è la decostruzione di ogni testualità già data per procedere oltre. Con il movimento stesso della scrittura si cancella ogni differenza tra letteratura e filosofia. In Derrida c’è il distacco dalla tradizione ormai consolidata dell’ermeneutica contemporanea, che si concretizza nella critica radicale alla nozione di dialogo, a quella di fusione di orizzonti tra il testo e l’interprete. Il decostruzionismo è l’analisi della ineliminabile differenza tra il testo scritto e l’intenzionalità che lo costituisce, rimanendo approssimabile unicamente come traccia, come inaggirabile parzialità.

La forma linguistico-simbolica deve essere considerata come un mero vestigio della forza, della vita, della presenza. Per Derrida la critica letteraria è strutturalista in ogni epoca, per essenza e destino. Sa ormai di essere separata dalla forza e dimostra con profondità e serietà che la separazione è la condizione dell’opera e non soltanto del discorso sull’opera. Onde il trionfo di ingegnosità tecnica o sottigliezza matematica che talvolta accompagnano certe analisi cosiddette strutturali.

Altre opere non citate La scrittura e la differenza (1967), Margini della filosofia (1972).

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