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Stili di Vita

RAZZA/2 L’INUTILITÀ

VALERIO CRUGNOLA - 18/01/2018

geneticaPochi giorni fa, in un’intervista ad una radio di Partito, l’ex sindaco di Varese Attilio Fontana, candidato dalla coalizione di destra alla presidenza della Regione Lombardia, ha dichiarato che «la nostra etnia, la razza bianca, la nostra società rischiano di essere cancellate» dai flussi migratori.

Non interverrò in merito a questo giudizio. Lo scopo di questa riflessione è di mostrare l’assenza di un fondamento razionale dei termini impiegati dall’ex sindaco. «Etnia» e a maggior ragione «razza» sono espressioni prive di utilità cognitiva. Queste parole non trovano più impiego, o lo trovano in modo molto controverso, in ambito scientifico, nei linguaggi specialistici, mentre persistono entro discorsi di senso comune, per lo più in contesti dove i termini vengono emotivamente caricati anziché impiegati in modo neutro come accade con «tavolo» o «bicchiere».

Nel caso della «razza» biologia, genetica e neuroscienze concordano: la razza non esiste, nemmeno per i cani. Ma nemmeno il concetto di etnia sta in piedi, e da tempo si registra una larghissima condivisione sull’inutilità scientifica di questo termine che risulta definibile solo in forme contraddittorie e facilmente contestabili. Per circa due secoli il termine «etnia» ha fatto comodo agli etnografi, agli etnologi e agli antropologi per descrivere popolazioni che si differenziano non biologicamente, ma per alcuni modi di vita, istituti che disciplinano la convivenza e forme di pensiero. Da qualche decennio questo termine viene accolto solo in quanto consente di capirsi, ma si è rinunciato a dargli una definizione condivisa che risulti utile sul piano cognitivo. Serve a dire ciò di cui stiamo genericamente parlando, ma occorre concordare volta per volta in quale senso circoscritto intendiamo utilizzarlo in mancanza di termini più precisi.

Storicamente l’etnologia, e in misura minore l’antropologia, hanno studiato delle società rimaste relativamente chiuse, statiche, omogenee e sostanzialmente isolate, ben distinguibili da altre. In un certo senso l’etnologia e l’antropologia, come notò malinconicamente Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici, hanno perduto il loro oggetto: al momento in cui lasciava l’Europa per l’Amazzonia, egli constatava che non esistevano più gruppi sociali di questo tipo.

Il presupposto metafisico, e dunque indimostrabile, dell’etnologia classica è che si possano distinguere questi gruppi sociali, non necessariamente ubicati in un medesimo territorio, a partire da legami di parentela che rimandano ad un unico ceppo originario. Chi presuppone l’esistenza di un lignaggio che configura originariamente le relazioni sociali e culturali adotta una visione fissista e antievolutiva della specie umana oggi inaccettabile.

Da un registro serio passo per comodità espositiva a un registro faceto. Come possiamo identificare una discendenza a partire da consanguineità condivise? Non è sufficiente l’elemento territoriale, e meno che meno il vincolo parentale. Chi fu il primo Crugnola da cui tutti i Crugnola dovrebbero discendere? Sul piano delle parentele siamo tutti il risultato di un incrocio di famiglie. L’impiego del cognome è convenzionale, e nemmeno indica discendenze comuni (non tutti gli Esposito sono parenti, e non tutti discendono da un bimbo abbandonato sul sagrato di una chiesa). In una società matrilineare porteremmo il nome dell’ava materna. Ma all’origine vi sarebbe comunque pur sempre una mescolanza. Cercando l’avo originario, man mano che risaliamo troviamo in verità un multiplo di quattro piuttosto grande, e privo di significato. Semmai, più è stata ampia la mescolanza e più ricco sarà quello che chiamiamo «patrimonio genetico».

Nemmeno la territorialità distingue le famiglie, proprio perché ogni società si genera e si sviluppa necessariamente attraverso le mescolanze.

Ho tre cognomi varesotti tra i miei nonni: Crugnola e Gervasini, fino a un certo tempo domiciliati tra Biumo Superiore e la piana delle Bettole; Bardelli è invece un cognome più tipico della cinta lacuale. Ma la nonna materna aveva un cognome ispanico, Olivarez, e i suoi avi non venivano certo da Curiglia Monteviasco.

Abbandonata la pista del lignaggio e del territorio, l’etnologia ha tentato di codificare gli «altri da noi» in base alla classificazione e descrizione dei comportamenti (le cosiddette «culture») rispetto a elementi che accomunano la specie umana.

Tutti dobbiamo copulare per riprodurci, ma questo atto semplicissimo può avere discipline sociali diverse e in continuo mutamento, anche sul piano istituzionale. Tutti dobbiamo mangiare: ma alcuni gruppi sono stati crudisti, altri no, e spesso le loro scelte non erano affatto dietetiche, bensì rituali (e tali sono, oggi, anche il vegetarianesimo e il veganesimo), e richiedevano giustificazioni religiose, anche primordiali. Tutti abbiamo conosciuto e conosceremo dei riti di passaggio: la nascita, lo sviluppo puberale, la scelta sessuale, l’ammissione al mondo adulto, la riproduzione, il lavoro, la sterilità, la vecchiaia e la morte; ma si presume che questi riti siano stati e siano diversi, perché supportati da credenze diverse circa l’uomo, la vita, la morte e il loro significato.

Ma tutte le credenze, i riti, le regole, le abitudini e persino le leggi cambiano. Non esistono le «culture» come elementi rigidi, come «identità» compatte e «appartenenze» prestabilite (due termini abusati, pericolosissimi e ambivalenti). Delle «macroculture» che rinviano a categorie generali dobbiamo fare a meno. Quanti cristianesimi sono esistiti in passato? Migliaia, già parlare di cristianesimo delle origini richiederebbe distinzioni molto precise e circoscritte. Non esistono le culture, semmai tante subculture che si intersecano e convivono nei territori, e che spesso sussistono a distanza. Ancor più spesso queste subculture si mescolano ad altre, e attraversano trasversalmente le discendenze recenti non meno di quelle remote. Mano a mano che giungiamo all’oggi, i prismi delle subculture si frangono, e si compongono in un caleidoscopio che possiamo nominare in un solo modo: ogni individuo è un insieme di subculture composite e in movimento. Non è una tragedia: da millenni tutto si mescola anche nelle mentalità, nelle abitudini di vita, nelle regole che conformano la convivenza e i passaggi dell’esistenza.

Siamo una società di individui, irriducibili gli uni agli altri anche quando catalogabili sotto diverse etichette sociologiche. Non siamo propensi a proiettare l’individualità dei contemporanei nel passato, ma l’individualità non è affatto un’esclusiva dei moderni introdotta dal tardo medioevo in poi.

Le comunità stesse non sono un dato oggettivo assoluto. L’essere di una comunità consiste nell’essere percepita come tale. La percezione delle comunità si è venuta in genere allargando, talvolta restringendo. Sono gli scambi economici, culturali ed esperienziali ad allargare la percezione delle comunità, o le forme istituzionali che si adottano (ad esempio l’invenzione della nazione nell’Ottocento, la nascita dell’idea di Europa nel corso del medioevo o la formazione degli stati nazionali). L’idea di comunità è legata a forme storiche che volta a volta strutturano il nostro immaginario. Alcune identità immaginarie si consolidano e concretizzano, altre evaporano, tutte mutano.

Se guardiamo al passato, non troveremo mai dei Celti mitologici che, in presenza di scambi e mescolanze, si guardano tra loro e si dicono: «Stanno cancellando la nostra etnia».

Abbiamo necessità di un nuovo linguaggio. Dovremmo adeguare i linguaggi popolari, ripetitivi e convenzionali, che incorporano elementi irriflessi, alla lingua neutralizzata, ma critica e riflessiva dei saperi scientifici. Purtroppo le distanze tra linguaggi popolari e linguaggi scientifici non è mai stata tanto grande, e questo è paradossale, se solo pensiamo all’estendersi dell’istruzione e della comunicazione. Qualcosa nei nostri sistemi formativi e comunicativi non funziona, e dobbiamo ragionarne con serietà. Congedarci da concetti irrimediabilmente corrosi dalla critica dei saperi scientifici ci sarebbe di grande aiuto: una sorta di «ecologia della mente», secondo l’idea di Bateson, che avrebbe ricadute benefiche sulla nostra convivenza, a partire anzitutto dalla politica.

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