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Stili di Vita

NAZIONE

VALERIO CRUGNOLA - 02/02/2018

nazioneSe mai servisse a qualcosa, la filosofia dovrebbe sollevare dubbi proprio dove ci sembra di avere a che fare con ovvietà sulle quali non occorre interrogarsi. Ricostruire la storia di un concetto, entrando nel processo del suo dispiegarsi, può aiutarci a convivere meglio, fosse solo nell’uso del linguaggio.

Benché abbia accompagnato la modernità, ora assecondandola ora negandola radicalmente, l’idea di nazione non è meno discutibile, contraddittoria e problematica di quella di etnia. L’etimo (dal verbo latino deponente nascor, nascere) indica la condizione ascritta di chi ha origini che lo accomunano a molti altri. Nel termine coesistono tre ascendenze tra loro incongrue: quella naturalistica – l’indimostrabile appartenenza a un ceppo comune; quella culturale – il nascere in un territorio che si riconosce in una lingua e alcuni valori comuni; quella statuale – un’autorità politica legittimata.

Dal mondo antico ai prodromi dell’illuminismo la nazione fu distinta dal popolo, dall’insieme delle persone che, vivendo in un medesimo territorio, sono sottoposte ad un comune sistema politico, giuridico e amministrativo. Il sovrapporsi dei due concetti è nato con la rivoluzione francese e con le reazioni opposte all’esportazione di alcuni ideali rivoluzionari nell’età napoleonica.

Fu Romagnosi nella Scienza delle Costituzioni a sviluppare la visione naturalistica della nazione: una teoria che oggi non ha più corso. Nei celebri Discorsi alla nazione tedesca Fichte identificò la nazione con la lingua, condizione di ogni espressione spirituale, e la associò all’idea di una missione civilizzatrice universalistica del mondo germanico rispetto all’Europa. In una luce diversa, il tema della missione nazionale si ritrova nel mito mazziniano – democratico e repubblicano – della «Terza Roma». In Mazzini la lingua è solo uno degli elementi culturali che formano l’insieme dei valori condivisi e stabili che costituiscono la «patria»: la territorialità, le istituzioni statali, il voto, l’educazione, il lavoro.

Secondo la filosofia organicistica della storia di Hegel le missioni nazionali che si succedono nel tempo concorrono al costruirsi dello Spirito universale. La storia di ogni popolo sintetizza in modo vivente le varie manifestazioni di scoperta dello Spirito a se stesso in ambito filosofico, scientifico, giuridico, istituzionale, religioso, artistico e linguistico. Vari popoli si avvicendano in questo formarsi e riconoscersi dello Spirito; ma nel decantarsi delle contingenze storiche e nell’evenienza di un nuovo Zeitgeist, ciascun popolo può acquisire organicamente gli apporti degli altri in una mediazione che supera i conflitti senza perdere specificità e differenze (l’universalismo non può consistere in un generico e vuoto cosmopolitismo).

Tra il 1848 e il 1945 nello spazio che chiamiamo «Occidente», con nazione si è intesa una configurazione politica costruita attorno ad un’autorità statale che si è descritta come legittima rappresentante di un popolo entro un territorio dato. A propria volta il popolo si è descritto come appartenenza a un corpo nazionale. Entro questa linea di pensiero Meinecke e Weber hanno posto la nazione all’incrocio di tre caratteri della modernità: il monopolio statuale della forza; la coscienza a posteriori di un percorso storico; la volontà di riconoscersi in un’autonoma unità di destini. Lo stato-nazione ha incorporato a sé, come un asso pigliatutto, l’autorità, il territorio, il sistema giuridico e civile, la comunità storica, linguistica e culturale e le peculiarità produttive e sociali.

Di rado la convergenza tra i tre elementi ha avuto corrispondenze reali. Specie nei territori dominati dai grandi imperi, chi parlava la stessa lingua non aveva né un territorio, né un’autorità né una storia culturale omogenea; nondimeno, considerandosi un popolo, pretese in vario modo di disporre dei requisiti di uno stato-nazione.

Dai processi di «nazionalizzazione delle masse» sono discesi i grandi conflitti successivi al Congresso di Berlino del 1878: tra le grandi potenze per l’egemonia geopolitica e per i possessi coloniali; tra imperi plurilinguistici e multiculturali e singoli popoli dai contorni incerti; entro i medesimi territori per effetto delle contrapposizioni enfatizzate dai nazionalismi, in particolare quelle religiose (l’integralismo cattolico polacco, ad esempio), «etniche» (le sanguinose «pulizie» praticate dai turchi contro armeni, greci e curdi) e «razziali» (i nazifascismi). I totalitarismi hanno incluso nel mito dei popoli-nazione quello del capo, dell’uomo «eletto» dalla storia a guidare la «patria» verso i suoi destini inesorabili.

Al termine del secondo conflitto mondiale, la «nazione» ha perso in breve tempo ogni connotazione ontologica sopravvivendo come costrutto utile a giustificare un agire e un vincolarsi gli uni con gli altri, verticalmente ed orizzontalmente. In suo luogo è subentrata l’idea di «Europa»: un territorio unito dall’adesione a una tavola di valori fondata sulla pace, la democrazia, i diritti umani e civili e la fine dei protezionismi.

Nonostante ciò, gli strascichi del mito dello stato-nazione si sono trascinati oltre la disgregazione dell’ultimo grande impero, quell’Unione Sovietica che Stalin aveva posto in totale continuità geopolitica con lo zarismo (anzi, tra il 1945 e il 1989, con l’estinzione del Patto di Varsavia e con la fine dell’invasione in Afghanistan, facendo molto «meglio» degli zar), sino alle guerre di tutti contro tutti esplose nei Balcani.

Con il nuovo millennio si è parlato di «comunità immaginate»: le comunità sussistono solo entro quadri narrativi che mutano nel tempo mediante schemi di inclusione ed esclusione. Questo schema può anche essere poliedrico e caleidoscopico, a seconda del focus che conveniamo di adottare. L’idea di nazione, come anche la sua antitesi (l’«internazionalismo proletario»), si comprendono solo entro una sorta di fenomenologia storico-politica che riesce ad evocare la sussistenza esperienziale ed emotiva di soggetti collettivi. La nazione è una peculiare modalità narrativa di quella narrazione più ampia che chiamiamo «storia». E molte comunità statuali sono state immaginate da altri.

Lo sgretolarsi delle basi ontologiche della nazione, incluse quelle dello stato-nazione, ha riportato l’attenzione sulla lingua. Il possesso della lingua madre è il solo elemento appreso attraverso l’educazione che accomuni gli individui al di là delle appartenenze acquisite e che non si perda anche se non più usata. Al contrario il territorio di residenza, i costumi, le credenze religiose, l’essere parte di una comunità politica organizzata sono di per sé caratteristiche mutevoli perché – specie oggi – si possono acquisire, adottare, sostituire, sovrapporre e abbandonare. Non esistono identità date: e nemmeno la lingua è di per se stessa un vincolo identitario forte. L’appartenenza a una lingua non basta: non necessariamente chi parla la medesima lingua costituisce un’unità coesa sul piano culturale. Analogamente, in un medesimo scenario istituzionale e statuale, o persino in una stessa famiglia, possono sussistere e coesistere più lingue.

Questo percorso filosofico e ideologico ha accompagnato, facilitato e espresso il processo storico che chiamiamo nazionalismo. Di fronte al concetto statico e rigido di identità abbiamo oggi un solo dovere: tirare lo sciacquone.

La transizione che stiamo vivendo è in continua fibrillazione: i fondamenti storici delle nazioni hanno iniziato a venire erosi, ma le ideologie nazionaliste godono paradossalmente di una fortuna imprevedibile solo due decenni fa.

Configurazioni come quelle degli stati nazionali sono fenomeni di lunga durata. Non spariranno presto, ma sembrano avere pochi margini per sostenersi in forme non violente. La globalizzazione ha privato gli stati nazionali della politica economica e li ha omologati a scelte stabilite al di fuori di ogni statualità democratica. In parallelo, la democrazia partecipativa è svuotata dai populismi, che oggi si alimentano grazie a mobilitazioni mediatiche oscure e inquietanti, al decadimento delle forme della politica e all’assenza di salutari conflitti sociali necessari per l’equità e la ridistribuzione della ricchezza e delle opportunità.

Resistenze nazionaliste molto forti percorrono l’Europa orientale e gli Stati Uniti, e si uniscono a tensioni neoautoritarie. Negli Stati Uniti, in Russia e in Cina il nocciolo duro del potere è nelle mani di ristrettissime élites economiche, politiche e militari. Nei paesi con tradizioni liberali meno solide prevalgono governi autoritari legittimati dal voto. I populisti di estrema destra fondano le loro fortune su un’opposizione strumentale che li premia sul piano elettorale: quella tra i «Noi» (noi bianchi, noi occidentali, noi italiani contro i neri, gli islamici, l’Europa; noi onesti contro i corrotti…) e i «loro» volta a volta fruibili nell’ondeggiare degli umori.

L’Unione Europea, il frutto migliore del rifiuto dei nazionalismi che ha caratterizzato l’«età dell’oro», si contorce tra i mal di pancia dei populismi xenofobi e razzisti, come in Polonia e Ungheria, l’arido burocratismo degli apparati di Bruxelles e la scarsità di visioni dei governanti.

Siamo in bilico tra un male acuto e uno cronico: da una parte l’estremismo sovranista, dall’altra i nazionalismi nascosti dietro l’egemonia franco-tedesca benché si ammanti di propositi europeisti. I due piatti della bilancia concorrono a piegare la capacità dell’Europa di rigenerarsi e di compiere passi avanti.

Non ci sono rimedi a breve. In una tempesta non servono bussole, specie se vecchie, per sfuggire ai frangenti. Seguiteremo ad oscillare a lungo in questo stato di precarietà. Essere avvertiti dei pericoli insiti nei nazionalismi è però un obbligo. In assenza di risposte, siamo vincolati ai doveri della memoria. Non dobbiamo dimenticare le guerre, le pulizie etniche, le spogliazioni imperiali, i regimi autoritari e i milioni di vittime prodotte dai crimini dei nazionalismi. Il mondo occidentale si sente a rischio, ma dovremmo capire che a metterlo a rischio siamo anzitutto noi stessi. Dovremmo evitare choc simili a quelli prodotti da due guerre mondiali con in mezzo ventisette anni terribili: questa volta non ci sarà dato di ricostruire.

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