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Parole

SCELTE

MARGHERITA GIROMINI - 02/02/2018

Calogero Marrone

Calogero Marrone

L’espressione “fare la cosa giusta” mi piace, sia per il suo significato più immediato sia per il suono: contiene l’aggettivo “giusto”. Usata dalla pubblicità e dalla politica: slogan della Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili; titolo del film dell’afroamericano Spike Lee “Do the right thing” del 1989; titolo di numerosi progetti scolastici di educazione alla legalità.

Nella frase trova posto il sostantivo “cosa”, nella scuola d’altri tempi ritenuto troppo generico dai professori che ce ne rimproveravano l’uso e l’abuso e ci costringevano al noioso esercizio di sostituzione della “cosa” con sostantivi più mirati.

Fai la cosa giusta, fare la cosa giusta.

La frase l’ha usata un ragazzo di prima superiore durante una lezione interattiva sul tema della Shoah.

Ho chiesto di provare a spiegarsi perché Calogero Marrone, capufficio dell’Anagrafe di Varese negli anni della persecuzione nazifascista di ebrei e oppositori, avesse deciso di rischiare grosso collaborando con il gruppo O.S.C.A.R., l’organizzazione cattolica che si occupava di mettere in salvo soprattutto ebrei in fuga verso la Svizzera. Provavo a tirare le fila del discorso sulla Giornata della Memoria sottolineando i punti salienti dell’incontro: facevo notare che persone come Marrone, con un lavoro, una famiglia, peraltro numerosa, una vita tutto sommato serena sia pure dentro una guerra terribile, avrebbero potuto lasciar correre gli eventi. Non tutti i cittadini di Varese, nemmeno quelli che non condividevano le ignominie perpetrate dal nazifascismo il cui pugno violento governava la città nel dopo 8 settembre del 1943, manifestavano un’aperta ribellione al regime. Per evidenti motivi.

Ebbene, il succitato ragazzino, che fino a quel momento aveva ascoltato con palese curiosità, risponde: “Calogero Marrone ha voluto fare la cosa giusta”.

Parole che ripagano della fatica di un incontro con un centinaio e più di studenti in età compresa tra i quindici e i diciassette anni.

Ho ripensato anche ad un’altra risposta, ricevuta da un ragazzo fino ad allora nascosto nelle seconde file. Avevo chiesto, quasi con nonchalance, perché, secondo loro, io stavo spendendo il mio tempo per incontrare loro e gli insegnanti raccontando di vicende lontane nel tempo e ormai quasi del tutto prive di testimoni diretti: settant’anni sono un tempo lungo e per un adolescente di oggi superano persino l’età dei nonni.

 “È venuta da noi per comunicarci che queste cose non devono succedere mai più”.

Parole ripetute in contesti istituzionali e dentro discorsi ben più complessi, dal presidente Mattarella e dagli ultimi testimoni della Shoah, nella commemorazione ufficiale al Quirinale: mai più.

È stato consolante sentirle pronunciare da un quindicenne, che probabilmente fino ad allora aveva considerato il termine Shoah poco più di un titolo scritto nel libro di testo.

Il Giorno della Memoria può recuperare un vigore nuovo quando si possono rievocare eventi vicini, collegandoli a persone che hanno camminato per le nostre stese strade, sono vissute nelle nostre case, hanno goduto dell’azzurro del nostro cielo e dei nostri paesaggi.

Anch’io ho fatto la cosa giusta accettando l’invito della settimana scorsa, dedicando l’intera mattina ad un centinaio di adolescenti, spendendo anche qualche ora per prepararmi a incontrarli, scegliere il filmato meno cruento o individuare le frasi più efficaci e meno retoriche, provando a mettermi nei panni dei giovani ascoltatori chiamati ad ascoltarmi per due ore.

 

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