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Souvenir

SUORE

ANNALISA MOTTA - 09/02/2018

Un gruppetto di suore salesiane

Un gruppetto di suore salesiane

Mi fa sempre tristezza sentir parlare male delle suore. Non per partito preso, intendiamoci: chissà quale grigia esperienza giustifica questo tono di raccapriccio, Uuh le suore! Semplicemente, mi spiace che altri non abbiano fatto le stesse – belle – esperienze che ho avuto la fortuna di vivere con le religiose della mia infanzia. La location era la scuola infantile Piccinelli-Comolli di Bosto (titolo che per anni attribuii alla “piccolezza” di noi alunni!). Le suore erano le salesiane di Maria Ausiliatrice, con la veste nera lunga ai piedi, il soggolo bianco, il velo nero anch’esso: ma spesso svolazzante, con la cuffia bianca da cui usciva indisciplinato qualche ciuffo di capelli. Sempre indaffarate, sempre a rincorrere i tanti alunni che capeggiavano con fermezza e allegria.

Allegria, davvero. La mia suora, poi, si chiamava Felìcita: un nome, un destino. Bassa e pienotta, con le guance rosse, le maniche rimboccate, il velo un po’ sghembo, il largo viso contadino bagnato di sudore nei mesi caldi, era “maestra giardiniera” come si diceva allora: ci faceva scuola con le aste e le cornicette, i pastelli e i lavoretti. Poi si buttava nei giochi con la palla, più scalmanata di noi. Andai a trovarla una trentina d’anni fa alla casa di riposo dell’ordine, che allora esisteva ancora di fianco all’oratorio: la trovai uguale precisa a come la ricordavo, solo tanto piccina e rotonda da evocare le tre fatine della Bella Addormentata disneyana. Il sorriso e l’affetto, lo stesso di trent’anni prima.

Suor Celestina era la cuciniera, alta e secca. La veste nascosta da un grembiulone, pelava quintali di verdure che le regalavano mani nere e screpolate e un profumo vago di erba e cavolo, fresco e invitante come i suoi occhi infantili. C’era poi una suora più anziana, occhialuta, che insegnava alle ragazze il ricamo al piano di sopra, luogo misterioso e off limits per noi bimbi. La vedevo spesso corrucciata e silenziosa (chissà, forse solo sofferente) e ne avevo un sacro timore: per fortuna non si occupava della scuola. La Superiora, che interveniva solo alla preghiera nella cappellina col soffitto stellato, era un donnino fragile fragile, vecchissima – a mio giudizio – con le orbite scavate intorno agli occhi acquosi di una dolcezza commovente. Ci accarezzava, forse anche ci dava qualche caramella, non ricordo bene. So che la mamma ne aveva un rispetto reverenziale, lei che era poco “di chiesa”.

E poi la mia preferita, suor Elia. Era giovanissima, così almeno mi appariva a fianco alle altre. Un viso pallido dagli zigomi alti e marcati, irregolare ma grazioso, la voce calda e intonata. Suonava il pianoforte per accompagnare le nostre canzoncine, con la marziale meccanicità delle suore ma con smisurata passione. Era materna e timida, accondiscendente e lieta. Ogni tanto sostituiva il prevosto a Catechismo, e a lei devo la più consolante immagine di Paradiso che abbia mai ascoltato: “Ogni tanto penso -disse improvvisamente come cogliendo al volo un pensiero fuggente- che mi spiace morire, anche se vado da Gesù, perché dovrò lasciare il mio amato pianoforte. Poi mi dico: che sciocca, ma il Signore ti preparerà un pianoforte bellissimo, in Paradiso, e tu potrai suonare per l’eternità!”.

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