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Cultura

LE STELLE DI DANTE

MANIGLIO BOTTI - 09/02/2018

libriA differenza dei tablet, degli iPhone e dei pc, il libro sopravvivrà a qualsiasi catastrofe e a qualsiasi moda. La ragione è semplice: il libro è come una creatura e gode di una sua energia – a volte positiva a volte negativa – ma i primi sono soltanto cose, oggetti inanimati, che non possiedono nulla di sé. Gli altri invece, i libri, sono cose vive.

Non so se a qualcuno è capitato. Tempo fa ebbi la ventura di tenere tra le mani volumi antichi, anche del Seicento e del Settecento, appartenuti a un parente collezionista, alcuni spesso sottolineati e postillati a penna sui margini bianchi dagli antichi proprietari. Volumi di letteratura, teatro, poesia, saggi giuridici e di scienze.

La sensazione di osservare e di cercare di decifrare quelle annotazioni, il pensare a altri lettori, altri uomini, che ci hanno preceduto di tre, quattrocento anni, di scoprire i loro pensieri, le loro considerazioni, le loro visioni anche, è impagabile, quasi soprannaturale. E conferisce al libro una forza che nessun altro oggetto può avere, perché il libro ha assunto in sé – talvolta – quasi la personalità e l’anima dei suoi possessori succedutisi nel tempo. E attraverso le pagine e i pensieri non si snoda soltanto il contenuto più o meno artistico dell’opera ma la vita, grande o piccola, quotidiana e impegnata, dei lettori che si sono avvicendati nella storia.

Ciò vale per i libri antichi, soprattutto. Ma anche per quelli recenti o recentissimi, quindi dati da poco alle stampe e – come si dice – che odorano ancora di inchiostro. A dare a loro vita e contenuto sono la natura e il carattere del possessore, che ormai non c’è più ma che, come s’è detto, continua a manifestarsi e a abitare nei suoi libri.

Lo scorso anno è mancata a Rimini, quasi centenaria, la professoressa Maria Luisa Zennari. Fino a una quarantina di anni fa fu insegnante di italiano, latino e greco nel liceo classico cittadino, il Giulio Cesare, situato allora proprio nel cuore della città, a qualche centinaio di metri dal Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti, il liceo che ha annoverato per esempio tra i suoi alunni più celebri il genio riminese: Federico Fellini. Di Federico, oltre tutto, la professoressa era stata una delle compagne di classe negli anni Trenta. Con ogni probabilità una di quelle ragazze cui gli altri giovani indirizzavano scherzi e… sogni come appare anche nel film Amarcord.

Se la vita portò in seguito Maria Luisa e Federico su percorsi del tutto diversi – lei nella scuola e lui nel cinema – si dovrebbe dire che ognuno dei due seppe onorare nel modo migliore il proprio talento. Lo scorso anno quando a Rimini mancò dopo una lunga vita la professoressa Zennari, i giornali, locali e no, dedicarono ampio spazio alla sua storia e al suo impegno culturale di lettrice e di esperta del nostro sommo poeta, Dante Alighieri, le cui spoglie giacciono – com’è a tutti noto – nella Romagna, nel suo mausoleo di Ravenna, a una sessantina di chilometri da Rimini, onorate nel mondo.

I libri, poi, si sa, intraprendono, come gli uomini, viaggi e percorsi per rappresentarsi sempre in modo diverso. Sono eterni, davvero. Libri antichi e nuovi, si diceva. Qualche settimana fa, ospite dei miei cognati riminesi in una piccola casa di Trastevere, a Roma, in un appartamento di uno di quei palazzi umbertini costruiti nella capitale negli ultimi decenni dell’Ottocento, ho ritrovato parte della biblioteca della professoressa Maria Luisa Zennari, lasciata in eredità ai miei parenti, che ne erano amici.

Mi sono messo a farli passare e a sfogliarli, cercando nelle pagine anche di ricostruire una mia idea della docente e dantista famosa: libri di critica, acquistati e postillati con cura e attenzione meticolose: vecchi – o antichi – e recenti. Mi ha colpito in modo particolare – soprattutto per il suo titolo – un libriccino di un paio d’anni fa, edito della casa editrice Salerno e pubblicato nella collana dell’Astrolabio: “Dante e le stelle”, scritto da due professori dell’università di Torino: Attilio Ferrari e Donato Pirovano.

Me ne sono appropriato con il consenso dei miei famigliari, ripromettendomi di leggerlo. Non sto a riassumerlo: si sa come Dante non fosse solo un grande poeta, ma un uomo profondo e colto della sua epoca, il Medioevo, conoscitore non solo degli uomini, ma della natura e del firmamento. Un legame – e dico probabilmente una banalità – che nella Divina Commedia, alla fine di ogni cantica, il poeta ricorda con la citazione della parola “stelle”. Nell’Inferno: “…E quindi uscimmo a riveder le stelle”; nel Purgatorio: “…E disposto a salire a le stelle”; nel Paradiso: “…L’Amor che move il sole e l’altre stelle”.

Il culto e la “vicinanza” poetica di Dante con le stelle – come forse si potrebbe dire di Giacomo Leopardi con la Luna – non stanno solo nella Divina Commedia, ma anche in altre opere: il Convivio, la Vita Nova… Non è qui il caso di addentrarsi in una disamina letteraria. Ma mi ha colpito – rivelata dai due autori del libriccino – un’annotazione che almeno io non conoscevo: mentre Dante ama e canta le stelle, Virgilio, il suo “primo accompagnatore nel viaggio oltremondano”, chiude invece le sue opere poetiche – nelle Ecloghe e nell’Eneide per esempio – con la parola ombre: “…Maioresque cadunt altis de montibus umbrae” (Ecl. I 83)”; “…Surgamus: solet esse guais cantantibus umbra, / iuniperi guais umbra; nocent et frugibis umbrae” (Ecl. X 75-76); “…Vitaque cum gemitu fugit indignate su umbras” (Aen. XII 952).

Le stelle, le ombre: due aspetti apparentemente antitetici della vita e del mondo.

 

 

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