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Souvenir

CHIACCHIERE

ANNALISA MOTTA - 23/02/2018

chiacchiereL’odore mi investiva fin dall’atrio del palazzo, a pian terreno. Un bell’odore spesso e sostanzioso, appiccicoso e invitante: finalmente Carnevale!

Appena prima del sabato grasso, a casa nostra, la mamma e l’Anna (donna a ore e quinto membro della famiglia) ci regalavano infatti una montagna di chiacchiere (da noi a Varese; altrove sarebbero bugie, frappe, o cenci, come diceva mia suocera marchigiana); piatti e piatti strapieni di leggere e fragili sfoglie, gonfie come palloncini (quelle venute meglio) o secche come foglie d’autunno, tanto friabili da lasciare una scia sbriciolosa sul pavimento, quando riuscivamo a rubarne di straforo. I vassoi più grandi erano da portare a scuola per il martedì; il resto per noi, i vicini, i figli dei vicini, gli amici e forse i parenti.

La pasta si stendeva sul piano di marmo del tavolo, poi con la rotellina dentellata si ritagliavano strisce oblique, che diventavano rombi con sapienti taglietti orizzontali, e il tutto si friggeva in due grossi tegami di ferro pieni di strutto. Perché il segreto, era, appunto, lo strutto. Panetti bianco-lattei che a contatto col metallo rovente si liquefacevano come iceberg nella calda corrente oceanica, controllati a vista dalle due cuoche che dovevano cogliere l’attimo preciso per una perfetta frittura. Le losanghe si adagiavano con delicatezza nel grasso, cominciavano a ribollire, si abbronzavano a poco a poco – non troppo per carità – e si gonfiavano obbedienti.

La paletta toglieva i dolci pronti dal fuoco, lasciando il posto ad altri, fino a che lo strutto non diventava scuro, fumoso e inutile, e si doveva ricominciare con un altro tegame e un altro panetto. Le chiacchiere pronte riposavano una sull’altra in un letto di carta assorbente, si spruzzavano di zucchero “vanigliato” (non lo chiamavamo ancora “a velo”) e aspettavano solo di essere mangiate, magari condite da qualche coriandolo finito in bocca.

Intanto la cucina, chiusa bene la porta e aperte le finestre, era diventata un antro nebbioso di vapore, fumo, profumo, puzza, tanto promettenti quanto duri da togliere da vestiti e capelli, e infatti mamma e aiutante si legavano in testa un bel foularone e si avvolgevano nel grembiule. E non lasciavano entrare nessuno, “per non impuzzonare tutta la casa”.

Come a dire che anche le cose più buone, come le “chiacchiere delle monache” carnevalesche, deliziose e dolci, evanescenti e sottili come ali di farfalla, hanno un costo, vanno conquistate, affrontando con coraggio – e lottando contro – quell’ “aria fritta” che dice di inconsistenza e futilità.

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