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Politica

NOTTE DELLO SPOGLIO

MANIGLIO BOTTI - 01/03/2018

elezioni

Elezioni del 1972 a Milano

Il voto è una cosa importante. Un pilastro della vita democratica. Non è solo un diritto ma un dovere civico. Lo dice la Costituzione (secondo comma dell’articolo 48). Gli appelli, in questa campagna elettorale tra le più insulse che io ricordi, e non sono più giovanissimo, si sono sprecati: a cominciare da quello del capo dello stato, e poi via via di illustri commentatori di giornali importanti e anche di politici (?) dei più svariati schieramenti: votate votate votate!

La prima volta che andai a votare è registrata nella mia mente con l’immagine di una certa emozione: politiche del maggio 1972 – all’epoca la maggiore età era a ventuno anni – e solo per la Camera, perché per il Senato, allora come oggi, bisognava avere compiuto i venticinque. Per questa stessa ragione un paio d’anni prima avevo “bucato” le amministrative della primavera del 1970, che però seguii come cronista della Prealpina. Così come pure avvenne alle politiche.

Le elezioni politiche, appunto. Il giornale mi incaricò della raccolta dei dati in prefettura comunicati dai 141 comuni della provincia (oggi sono un paio di meno). Tutto a… mano. Computer e approvvigionamenti informatici, all’alba di quei “mitici” anni Settanta, erano pura fantascienza. Per telefonare bisognava chiedere il permesso e recarsi in qualche ufficio della prefettura. Nei giorni precedenti mi preparai quattro o cinque tabelloni (Camera e Senato) con a sinistra l’elenco dei comuni e sopra quello dei partiti che, mi pare di rammentare, erano una decina.

Trascorsi in una saletta della prefettura a Villa Recalcati – il nostro era il solo giornale che pubblicava risultati completi – qualcosa come tredici ore filate: dalle quattro del pomeriggio del lunedì fino alle cinque del mattino del martedì. Quando uscii era già chiaro da un pezzo e sentivo cinguettare gli uccellini nel parco.

Dati raccolti a mano, dicevo. E anche le percentuali, fatte a mano con una calcolatrice da ufficio. Per me che sono sempre stato un somaro in matematica, un vero dramma. Ebbe compassione e mi venne in soccorso il viceprefetto vicario addetto al servizio elettorale, il dottor Umberto Calandrella, che poi negli anni Novanta divenne prefetto a Rimini (la mia città “adottiva”) e a Ravenna. Gli sarò riconoscente per l’eternità: un erroruccio e mi “facevano fuori”. Il prefetto di Varese si chiamava Gaetano Ariano. Un… meridionale di grande simpatia e disponibilità, piccolo di statura e segaligno, che poi, a carriera conclusa, confermò Varese come sua città di residenza.

Scrivevo, scrivevo – nel modo più chiaro possibile –, facevo percentuali e chiamavo il giornale da dove inviavano il fattorino Mario Giovannoni, che portava i “quadri” direttamente in tipografia. Andammo avanti così fin quasi alle tre. Gli ultimi tabelloni – completi! – li consegnai io in viale Tamagno. E poi me ne andai a dormire.

Riferisco – per quanto ricordi – alcune note sui risultati di quelle elezioni: la Democrazia cristiana ottenne, com’era tradizione in queste plaghe, la maggioranza relativa. Un po’ dappertutto, ma nel Sud della provincia – nel Saronnese per esempio – con percentuali bulgare, che talora sfioravano anche il settanta per cento. Solo la Lega, una ventina di anni dopo, sarebbe riuscita altrettanto in quest’impresa. Partito comunista e Partito socialista nella norma: senza infamia e senza lode. Il vero “vincitore” di quelle elezioni fu il Movimento sociale, la destra, dunque, che anche nel Varesotto toccò una media generale superiore dell’otto per cento, raddoppiando i consensi. Fu un successo di carattere nazionale, sponsorizzato dall’allora segretario nazionale Giorgio Almirante, formidabile affabulatore. Il leader democristiano, l’immarcescibile Giulio Andreotti, sostenne che quei voti dati al Msi – rosicchiati per lo più alla Balena Bianca – erano voti in “libera uscita”. Voti, che perciò sarebbero stati riconquistati a breve. Mah!

Il voto – dice ancora la nostra Costituzione all’inizio del secondo comma dell’articolo 48, già ricordato –, “è personale ed uguale, libero e segreto…”. Segreto… Potrà interessare tuttavia a chi andavano, allora, le simpatie del sottoscritto che per la prima volta con la mano tremante infilava la sua scheda nell’urna: per il Partito liberale, memore o ispirato da una tradizione che si affondava nella nostra storia dell’Italia unita, da Cavour a Giovanni Giolitti e poi a Croce…

La guida del Pli di quegli anni, Giovanni Malagodi, era un uomo saggio e preparato che si metteva in tasca molti dei suoi “avversari” politici. Ma forse non era mediaticamente simpaticissimo. Parlava alle teste e non alle pance. Da sottolineare, per esempio, era stata un paio d’anni prima la sua battaglia contro le Regioni, già considerate possibili idrovore del bilancio nazionale. Un anticipatore. All’epoca – non credo con grande esultanza – faceva parte del governo, e tornò a farvi parte per poco anche dopo quelle elezioni del maggio 1972 nelle quali il Pli non aveva certamente brillato.

Sicché la mia adesione rimase quel che si dice un’adesione di nicchia… Oggi il Liberale dovrebbe essere un partito di massa. Così a vista, non v’è partito che (tranne rarissime eccezioni) non si proclami in qualche maniera liberale. È per questo che di nicchia in nicchia i liberali sono cresciuti così tanto da scomparire.

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