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Souvenir

LA GIAZZÉRA

ANNALISA MOTTA - 09/03/2018

Pattinaggio a Gressoney nel 1964

Pattinaggio a Gressoney nel 1964

Quante storie per un po’ di sano gelo! Gennaio e febbraio sono per antonomasia i mesi della neve e del ghiaccio, da che mondo è mondo, soprattutto a Varese.

Guardatevi le foto o le cartoline degli anni ’50 e ’60: quelle immagini in bianco e nero così nitide (grazie al nitrato d’argento), quel formato dai bordi dentellati e le didascalie in corsivo bianco, che ritraevano gli angoli più impensati della nostra provincia (tante, tantissime firmate Tipografia Reggiori di Laveno).

La neve c’era, eccome: alta magari un metro, ai bordi delle strade, con gli spalatori in primo piano e l’immancabile tramvai che – unico – sfidava le avversità e le incognite di un tragitto impervio.

Ho un vago ricordo – ero molto piccola – di mio padre che dopo una nevicata eccezionale si alzava di notte per scortare gli operai sui binari della Valganna, lui che era responsabile tecnico della linea, per controllare gli scambi, che non gelassero e fossero efficienti il mattino dopo.

E poi il ghiaccio… Quando la cascata delle Grotte diventava una solida stalattite trasparente, allora si cominciava a pensare ai pattini. Sì, perché i nostri laghetti di lì a poco si sarebbero trasformati nella miglior pista di pattinaggio che si potesse desiderare. La torbiera di Ganna era la prima a rivestirsi di una lamina lucida e trasparente, da cui spuntavano canne e cannette, in un gioco di labirinti che sfidava noi ragazzi a cimentarsi con grande incoscienza. Si gettava un bel sassone grosso e pesante il più lontano possibile dalla riva: “Tiene? Sì sì, evita le canne però che lì c’è ancora acquetta!”.

Poi, se il gelo durava, ghiacciava anche il lago di Ghirla: che pacchia! Una sconfinata distesa di ghiaccio tutto per noi, a volte perfino da una sponda all’altra. Indispensabile una scopa di saggina, per togliere brina e nevischio che si depositava sul ghiaccio e bloccava le lame; a volte si portavano anche seggiole e sdraiette per farci un pic nic di famiglia, visto che anche i miei sapevano pattinare e anzi io ho proprio imparato da loro, sullo stagno di Cappellagnuzzo.

Ma nei giorni feriali, quando non si aveva tempo per una trasferta in Valganna, e ovviamente dopo aver esaurito la montagna di compiti che toccava a noi ginnasiali, si ripiegava sulla Giazzéra di Masnago.

“Bar Sport”, se non ricordo male: che aveva una vasca di cemento grande come un cortile, poco profonda, nella quale si gettava acqua e si sperava in Dio. Quando ghiacciava, ecco bell’e pronto il patinoir. Certo, si doveva attendere il tramonto, e fare attenzione alle pozze residue, e soprattutto alle assi che ne delimitavano i margini: ma era proprio questo il bello. Interminabili partite a prendersi, saltando come cavallette per superare gli ostacoli, per non slittare sull’acqua, per cadere senza tagliarsi con le lame, per rincorrere il maschietto impertinente che ti rubava il berretto… E quante cotte prese pattinando in coppia sulle note di Non son degno di te o Un anno d’amore! Mentre le luci del Sacro Monte si accendevano sullo sfondo, e la cioccolata calda ti aspettava nel bar pieno di fumo, di pozze d’acqua e di guance arrossate.

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