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Libri

GIORNALISTI SCRITTORI

SERGIO REDAELLI - 16/03/2018

teruzziLa prima regola che i vecchi del mestiere raccomandano ai nuovi arrivati in redazione è di non strafare, verificare le notizie, riferirle nel modo più asciutto possibile e astenersi dai commenti. Gli articoli di giornale non sono libri e guai a chi prova a imitare gli scrittori. Ma Rosa Teruzzi è un caso a sé. Caporedattore di Quarto Grado su Rete4 con un passato di cronista di nera, è cresciuta a pane e libri di Giorgio Scerbanenco, il suo idolo, re del genere poliziesco e giornalista di Rizzoli e Mondadori a metà del secolo scorso. Lui, di origine ucraina, narrò con tocco umano ed amaro la Milano “calibro 9” avvolta nella nebbia dei Navigli e portò al successo la serie del Duca Lamberti, iniziata con Venere privata nel 1966.

Lei, identica passione per le periferie degradate, scrive romanzi soft-noir ed è la punta di diamante della casa editrice Sonzogno, la stessa di Liala. Il suo penultimo giallo La fioraia del Giambellino è alla terza ristampa e quello nuovo, Non si uccide per amore, è atteso a giorni da schiere di impazienti lettrici-fans. É una serie centrata su tre strane investigatrici, nonna, madre e figlia che vivono in un casello ferroviario. Quanto conta la cronaca nella formazione di uno scrittore? E quanto è cambiata nel corso degli anni? Il giovane Gabriele D’Annunzio la definiva “miserabile fatica quotidiana”, Carlo Emilio Gadda una corvée da “scribacchino fesso”, Eugenio Montale “un secondo mestiere”.

Dino Buzzati trasse ispirazione dalla routine al Corriere della Sera per scrivere Il deserto dei tartari e da un suo reportage sul delitto di Rina Fort (che nel 1946 massacrò a colpi di spranga la moglie e i tre figlioletti dell’amante), partono le riflessioni di Rosa Teruzzi intervistata da Matteo Inzaghi nella sede del Gruppo Alpini. “Oggi c’è più rispetto della privacy rispetto ad allora – spiega – Il mestiere del cronista è costellato di codici deontologici, di testi unici, di leggi da conoscere, di crediti da guadagnare con test ed esami di aggiornamento. Non si può mostrare il volto dei bambini e gli arrestati in manette, è vietato speculare sul sangue e sui dettagli macabri. Invece allora si pubblicarono le foto del massacro”.

Nel 1981 la Rai riprese in diretta la tragedia di Alfredino Rampi caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, fra Roma e Frascati. Il fatto commosse l’Italia, compreso il presidente della Repubblica Sandro Pertini che volle assistere di persona ai tentativi, purtroppo vani, di salvare il bambino. Ma fu il caso di Enzo Tortora, il presentatore ingiustamente arrestato e mostrato in tv con le manette nel 1983, ad aprire “il processo” ai media. Suscitò scalpore, indignazione, rabbia. Sotto accusa finì la spettacolarizzazione della cronaca nera che, talvolta, sembra sfruttare il desiderio di apparire dei curiosi e delle famiglie.

“Prendiamo l’uccisione di Sarah Scazzi – osserva Teruzzi – Avetrana è un tranquillo paese tra gli ulivi vicino al mare e non ci teneva ad essere bollato come luogo di morte. Lo stesso discorso vale per Cogne e Santa Croce Camerina dove fu strangolato il piccolo Loris. Alcune famiglie mostrano il proprio dolore in pubblico sperando di ottenere più facilmente giustizia, altre invece si chiudono nel silenzio. Per l’omicidio ancora irrisolto di Lidia Macchi, la studentessa trucidata con ventinove coltellate la sera del 5 gennaio 1987 a Cittiglio, la mamma Paola vuole la verità e la lettura a Quarto Grado della poesia In morte di un amica è servita a riaprire le indagini”.

“Loris – aggiunge la giornalista scrittrice di Villasanta – fu ucciso nel paese del commissario Montalbano ma la fantasia di Camilleri sa inventare un lieto fine, la realtà è invece spesso più tragica”. Il clamore è poi ingigantito dai social che fanno cronaca collaterale, inventano ipotesi, interpretano dichiarazioni correndo il rischio di deviare dalla realtà. “Sul caso di Jara Gambirasio c’è un faldone di sessantamila pagine tra indagini giudiziarie, ricerche del Dna dell’assassino, testimonianze di e su Bossetti ecc. Di tutto questo non c’è traccia sui social, la gente non conosce gli atti giudiziari come chi, per mestiere, accede alle fonti”.

“In Italia siamo tutti allenatori della Nazionale di calcio, figurarsi se rinunciamo a commentare un delitto. Siamo pigri, curiosi e leggiamo poco. Troviamo il tempo per Facebook, per guardare la partita in tv e ci annoiamo se l’inchiesta è lunga da seguire. Quando ero alla Notte il capocronista Costanzo Gatta mi insegnò che bisogna mettere la notizia nella prima riga perché alla seconda il lettore già c’incarta il pesce. E che si deve dare lo stesso spazio alla notizia di reato formulata dall’accusa e all’eventuale assoluzione. Non si devono fare differenze. Lo spazio va gestito con responsabilità”.

Al circolo degli alpini piovono le domande. Spingere l’interesse del telespettatore sui fatti di sangue provoca emulazione? “No, le statistiche dimostrano che gli omicidi sono diminuiti nonostante il tam-tam dei media. In alcuni casi, però, la tv si autocensura. Noi non insistiamo sugli attentati con l’acido e sui sassi lanciati dai cavalcavia perché il rischio di emulazione esiste”. In tv è giusto parlare dei suicidi? “Noi rispettiamo la privacy – risponde la signora in giallo di Mediaset – a meno che ci siano risvolti sociali, suicidi provocati dalla perdita del lavoro, personaggi noti o servizi pubblici coinvolti. Come nel caso del blocco del traffico per un suicidio sotto il treno”.

Talvolta è l’intervistatore a finire sul banco degli imputati. “Non si dovrebbe mai chiedere a una mamma a cui è stato ucciso il figlio che cosa prova. Né emettere sentenze. La tv non è un tribunale, non spetta a lei giudicare e tranne poche eccezioni non esistono programmi che cambino il corso dei processi”. Teruzzi cita di nuovo La Notte: “Mi chiamavano Lassie perché riportavo sempre a casa l’osso, cioè la foto del morto e devo ammettere che la scuola della “nera” mi ha permesso di diventare la scrittrice che da bambina sognavo di essere. I miei personaggi e le trame sono di fantasia, non li prendo dalla cronaca. Non voglio che voltando l’ultima pagina di un mio libro il lettore provi un senso di oppressione”.

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