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Società

PARITA’ NOMINALE

GIOIA GENTILE - 23/03/2018

genereOgni volta che il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca emana qualche direttiva, io tremo. La sensazione è che gli estensori di quei documenti vivano in un mondo tutto loro, lontano dalla realtà della scuola e dalla vita delle persone normali. E che passino le giornate ad elaborare contenuti astrusi e ad esprimerli in forma incomprensibile.

Ma l’8 marzo mi hanno smentito: in occasione della Giornata internazionale della donna hanno pubblicato un documento chiarissimo. Provate ad indovinare che cosa suggerisce. Che si adottino libri di testo in cui si dia spazio a figure femminili che si sono affermate nei diversi settori dell’attività umana? Che si educhino i giovani maschi al rispetto della donna, nella speranza che un domani non la trattino come proprietà privata? Che nelle ore di educazione civica si favoriscano dibattiti sulla parità di genere? Se avete avuto una di queste ispirazioni o altre simili, siete illusi come me.

No, il MIUR, in occasione dell’8 marzo, ha presentato le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo. Anche se il titolo lascia ancora qualche perplessità, soprattutto generata da incredulità, il contenuto, come dicevo, è chiaro: le amministrazioni pubbliche, e a maggior ragione il MIUR, devono eliminare dal linguaggio ogni discriminazione di genere; quindi non dovranno più rivolgersi, ad esempio, ai dirigenti, ma ai dirigenti e alle dirigenti (o viceversa, la posizione è indifferente), oppure ai/alle dirigenti (o viceversa). Il documento è poi arricchito da tabelle esplicative dettagliate, frutto, come tutto il resto, dell’impegno di linguisti/e e dirigenti del Ministero, chiamati (qui si può usare il maschile, assicurano) a costituire un gruppo di lavoro con questo specifico compito. Si apprende quindi che sarebbe opportuno scrivere sindaca, ministra, avvocata, chirurga, critica, perché la terminazione dei nomi in –o si trasforma in -a; e così pure assessora, difensora, evasora, revisora, perché la terminazione dei nomi in –ore si trasforma in –ora. Tuttavia ci fanno sapere che applicare lo stesso criterio a dottore, professore, direttore, trasformandoli in dottora, professora, direttora, ancorché grammaticalmente corretto, non ha avuto successo. Quindi potremo farcene una ragione e continuare, sia pure a malincuore, a chiamarle dottoressa, professoressa, direttrice, perché il ministro – ops! la ministra -, bontà sua, ha chiarito che queste regole non saranno imposte a tutti, ma solo a chi compila documenti amministrativi.

Qualche problema sorge per termini come guardia, vedetta, sentinella, che restano di genere femminile anche se le rispettive funzioni vengono esercitate da soggetti di genere maschile. Mi aspetto, quindi, tra non molto – anzi lo auspico – che i signori uomini si ribellino e chiedano, per parità di diritti, di essere chiamati guardio, vedetto, sentinello.

Voglio precisare che non sono pregiudizialmente contraria all’uso dei femminili nel linguaggio: già Dante utilizzava il termine ministra; nella Salve Regina ci si rivolge alla Madonna chiamandola avvocata; e nessuno si è mai scandalizzato. E poi la lingua evolve e sarebbe auspicabile che diventasse espressione di una raggiunta parità. Ma è proprio qui il problema: esiste la parità? Ciò che mi sconcerta è che il Ministero punti a cambiare la forma prima della sostanza. Perché se è vero che la forma è spesso anche sostanza e che il linguaggio può avere una funzione educativa, dal Ministero dell’Istruzione mi aspetterei che, prima di tutto, si occupasse della sostanza e non perdesse tempo, energie e denaro per trasformare il testo dei documenti amministrativi, da cui nessuno si è mai sentito discriminato. Sarebbe più opportuno che la smettesse di utilizzare il burocratese.

Col tempo, probabilmente, troveremo naturale parlare di avvocata e di chirurga. Qualche dubbio mi resta per architetta: posso solo immaginare le battute a cui darà adito.

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