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Società

QUANDO L’ABITO FA LA DIVA

BARBARA MAJORINO - 23/03/2018

givenchyQuando muore un grande artefice del Novecento, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: chi prenderà il suo posto? E sarà alla sua altezza? Parlo di Hubert de Givenchy lo stilista deceduto il 10 marzo scorso.

La Maison è andata avanti diretta da altri nomi di prestigio, come Joe Galliano e Riccardo Trisci, più altri tentativi di fusioni. Attualmente è diretta dalla britannica Clare Waight Keller. Il grande couturier rimase a fare il direttore artistico fino al 1995. Ma è inutile ricordare che il meglio della sua produzione artistico-artigianale è già entrata nei musei dedicati alla moda e alla storia del costume. E non a caso, dato che questo grande gentleman della moda aveva una sua filosofia: «È l’abito che deve seguire le linee del corpo, non il corpo assecondare la forma del vestito».

Il gusto francese, caratterizzato da una manifattura dedita alla perfezione e alla raffinatezza, incontra le mani di un uomo nato da famiglia aristocratica di religione protestante nel 1927 a Bouvais, orfano di padre e cresciuto da sempre tra i costumi d’epoca collezionati dal nonno, un celebre fotografo. Contro il volere della famiglia si avvicinò al mondo della moda, specie dopo aver frequentato “L’Ecole Nationale des Beaux Arts” a Parigi ed essersi avvicinato all’atelier di Cristobal Balenciaga del quale era fervente ammiratore. Dopo il 1968 ne ereditò per l’appunto la clientela, incorporandola nel suo atelier che andava già a gonfie vele. Dalla loro collaborazione nacquero gli abiti a “palloncino”.

«Gli abiti di Givenchy sono gli unici nei quali mi sento me stessa. Lui è più di un designer, è un creatore di personalità» diceva Audrey Hepburn del suo couturier preferito, le cui creazioni (91 abiti, 17 dipinti, bozzetti, foto) sono pure stati in mostra fino al gennaio 2015 nel Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.

In scena tutte le più significative “mises” realizzate dal geniale stilista francese. Come l’abito nero lungo appena scivolato indossato da Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany” con un motivo circolare in perle che quasi copre le spalle di Audrey (aveva il complesso delle scapole sporgenti) nella scena della celebre passeggiata sulla 5th Avenue a NY davanti alla vetrina della famosa gioielleria, mentre è intenta a mangiare una brioche.

Givenchy è stato il couturier che per primo ha saputo creare una fortunata simbiosi stilista-diva. Il tubino nero di Audrey (battuto a cifre considerevoli nell’asta di Christie’s) mentre fuma al party con il lungo bocchino, è già un’icona intramontabile e non solo una locandina filmica. Idem l’abito nero più corto un po’ svasato (il “little black dress”) con una bordatura in fondo – “mise” completata di largo cappello a cloche abbellito da un nastro di seta e occhiali, quando lei fischia per chiamare un taxi.

Non è un caso che la Guerlain Profumi abbia prodotto in tempi recenti una fragranza dal titolo “La petite robe noire”, in omaggio al suo stile. E chi non ricorda la scena dell’ingresso al ballo in “Sabrina” di Billy Wilder? La giovane si appresta al gran ballo di Cenerentola facendo la sua apparizione nella ricca casa dei Larrabee indossando l’abito da sera bianco di organza, con inserti di motivi floreali in seta nera impreziositi da perline nere, ricamati sul corsetto e lungo lo strascico.

Il design semplice, la scollatura senza spalline, l’assenza di gioielli, riescono a far risaltare Sabrina-Audrey nel suo aspetto fresco e giovanile in mezzo agli altri invitati austeri e banali. Il taglio dell’abito è molto innovativo: è più corto sul davanti mostrando le caviglie e le scarpe dal tacco basso. La grande amicizia fra Audrey e Hubert de Givenchy nacque per caso.

Lei era agli esordi della sua carriera durante la lavorazione di “Sabrina” e si fece annunciare per incontrarlo. Ma ecco l’equivoco. “Credevo fosse un’altra Hepburn, Katharine, di cui ero fan. A quel tempo Audrey non era ancora molto conosciuta a Parigi” racconta lo stilista nelle interviste. “Mi chiese di disegnarle il guardaroba per Sabrina, io ero occupato a metà collezione, ma le mostrai alcuni modelli che sembravano tagliati per lei”. Fu subito sodalizio creativo.

Da allora la loro solida amicizia durò fino alla morte dell’attrice e il nome di Hubert de Givenchy compare nei crediti di tanti altri suoi film: “Arianna”, “Cenerentola a Parigi”, “Sciarada”, “My Fair Lady”, “Insieme a Parigi”, “Come rubare un milione di dollari”, ciò che favorì l’espansione e diffusione della sua griffe nel mercato americano. Un’amicizia fraterna fatta di stima e fiducia reciproca. Per Givenchy “Audré” (così la chiamano i francesi) era considerata una “sorella”.

Del resto divenne il suo sarto personale anche nella vita privata, grazie al suo stile sobrio, pratico e veloce. Precursore del prêt-à-porter di lusso, fin da giovanissimo creò nell’atelier di Elsa Schiaparelli (dove lavorò per 4 anni), i famosi “separati” multifunzionali, una linea di coordinati blusa-gonna-giacca e pantaloni che i clienti potevano accessoriare a seconda del loro gusto e umore.

Il suo talento fece subito breccia fin dalla prima collezione del 1952, dove appena 24enne, venne notato con interesse dalla direttrice di “Elle” e da Carmel Snow, gran sacerdotessa di ” Harper’s Bazaar”. Un défilé tutto in bianco e nero dove si distinguono le modelle amiche sue tra le quali la stupenda Bettina Graziani che darà il suo nome a un pezzo destinato a diventare un capo di culto: la blusa Bettina. Nasce ed evolve con lui anche la figura della supermodel divistica e Bettina (chiamata così, senza il cognome) ne fu un esempio significativo. Fu anche press-agent per la Maison Givenchy.

Deborah Kerr, Juliette Gréco,Lauren Bacall, Elizabeth Taylor, Jeanne Moreau, Jean Seberg, Marlène Dietrich, Greta Garbo, Marella Agnelli figurano nel gotha della sua clientela. Ma soprattutto creò tutto il guardaroba per la visita ufficiale di Jacqueline Kennedy in Francia nel 1961 e confezionò l’abito verde smeraldo con bolero indossato da Grace Kelly durante un viaggio a Washington.

Nelle ultime interviste rimpiange il tempo in cui le mannequin erano eleganti ma senza ricorrere ad un glamour chiassoso e le sue clienti si vestivano con cura anche per recarsi in luoghi sperduti. Giusto il tempo, prima di andarsene, di avere un ultimo rammarico: quello di non avere saputo identificare un discepolo a cui trasmettere il suo savoir-faire. E quello di aver prolungato la sua vita fino a 91 anni, catapultato in un’epoca dove l’eleganza non è più una virtù.

“Ma ora l’eleganza è scomparsa. Niente sta bene, niente sta male, tutto è qualunque cosa». «Oggi – aggiunge – sembra che i creatori non cerchino di rendere bella la donna, ma piuttosto il contrario». “Vedo in giro abiti con tessuti di scarsa qualità e mi dispiace. Mi sembrano creazioni senza vita.” Poi, da vero signore, quasi a pentirsene, aggiunse che in fondo è già stata una grande fortuna aver attraversato un tempo nel quale la grazia, lo stile, l’eleganza e il talento venivano riconosciuti e apprezzati. La sua ultima sfilata si tenne l’11 luglio 1995 a Parigi.

Il quotidiano “Le Figaro” sottolinea che “le Grand Hubert” non ha trovato il suo posto nella nuova era, quella dei “bulldozer industriali”. Ma forse è anche un privilegio.

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