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Attualità

LA SPERANZA

EDOARDO ZIN - 06/04/2018

benedizioneChissà se capita anche a chi, anziano come me, ricorda immagini, gesti, luoghi della sua infanzia e solo oggi, in attesa di passare all’altra riva, riesce ad assaporare il significato autentico di quelle lontane esperienze di vita lontana!

Durante la Veglia pasquale, al momento della benedizione dell’acqua battesimale, mi sono rivisto fanciullo: alle undici del mattino del sabato santo si scioglievano le campane che suonavano a festa per annunciare che Cristo era risorto. In quel momento, mia madre correva al limpido ruscello che scorreva vicino a casa e, con la mano conca, raccoglieva un po’ d’acqua, correva da me e mi bagnava gli occhi. Secondo quel gesto, i miei occhi, ancora freschi di lacrime per la morte del Salvatore, sarebbero stati lavati dall’acqua nuova. Era questo un atto, tra i molti, che si compiva durante la Settimana Santa e che oggi diremmo essere “magici”, tipici di una società fortemente sacralizzata e rurale, in cui gli elementi essenziali alla vita – terra, fuoco, aria, acqua – venivano esorcizzati. Ed era questo il nesso che nel passato correva tra la Pasqua di Resurrezione e l’aprirsi alla nuova stagione. Tradizioni, d’accordo, ma a cui si dava credito. In fin dei conti, le verità che contano, i grandi principi sono pochi, quelli che restano sono quelli che ci ha insegnato nostra madre da bambini! Occorre, però, discernere tra l’essenziale, che non cambia, e le incrostazioni storiche che su di esso si sono depositate: ci sono valori perenni e mode passeggere.

I conservatori sono solo consapevoli del valore insostituibile della tradizione (il lettore noti la “t” minuscola”!). D’altro lato ci sono coloro che con fierezza proclamano la verità dell’innovazione, del cambiamento a tutti i costi, anche in campo liturgico.

Ebbene, quest’anno, al momento della benedizione dell’acqua lustrale, durante la solenne veglia, quando il sacerdote ha invocato la benedizione di Dio sull’acqua “creata a portare fertilità alla terra, freschezza e sollievo ai nostri occhi”, con un’intuizione improvvisa, ho rivisto mia madre affaccendata a lavarmi gli occhi al momento del suono delle campane. Lei, digiuna di teologia, compiva un gesto liturgico: ravvivava il ricordo del mio battesimo e, senz’altro incoscientemente, mi lavava gli occhi perché, alla luce del Risorto, potessi guardare al mondo con occhi nuovi.

Mentre le brave monache che mi ospitavano, cantavano, accompagnate dall’arpa, antichi mottetti liturgici, a me, al contrario, sovvenivano i versi di una nota canzone di Claudio Baglioni: “A volte, più che di un mondo nuovo, c’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo”.

E’ vero che ai nostri occhi il mondo d’oggi ci sembra malvagio e perverso, ma non è forse il nostro sguardo incapace di coglierne le sfumature, le diversità, quel poco o quel tanto di bello e di buono che c’è in esso?

Tra i tradizionalisti arroccati nelle loro tradizioni (“Si è sempre fatto così!”) e gli innovatori ad ogni costo, non c’è forse lo spazio per vedere con sano realismo il mondo che cambia? Tra una realtà oggettiva fondamentale, non esiste una soggettività che è decisiva per giudicare la realtà che ci circonda e che è in continuo movimento? Tra i conservatori che si sbarrano sulle loro torri per guardare dall’alto la città dell’uomo per giudicarla peccatrice e i rivoluzionari che tutto vorrebbero distruggere in nome della modernità, perché non dare spazio a coloro che tentano con discernimento di purificare il loro occhio intorbidito per scoprire la potenzialità di bene che c’è nel mondo?

Per vedere il mondo con occhi nuovi dovremmo abbandonare l’aggressività, l’irruenza, la prevaricazione nei rapporti personali, la violenza e l’odio tra le genti. Gli occhi nuovi guardano con un sorriso, con uno sguardo mite, cercano, vagliano, documentano, ragionano, al contrario di chi usa la battuta che strappa l’applauso perché è alla ricerca non della verità, ma della banalità, della comodità o del proprio tornaconto. Gli occhi nuovi della Pasqua ci invitano, viceversa, alla vita, alla sapienza, alla conoscenza.

Succede che nell’epoca della globalizzazione, vizi e virtù si stanno sempre più uniformando. Genti lontane bussano alle nostre frontiere, vengono accolte e spesso alcune di esse sono ree di delitti, proprio come capita tra i nostri connazionali: a causa di ciò, molti temono per le tanto decantate radici culturali e spirituali dell’occidente messe a repentaglio dalla presenza di questi diversi. Ma queste radici non si basano proprio sullo spirito di apertura, fatto di accoglienza e dialogo? Basta forse mettere il crocifisso nei luoghi pubblici o allestire il presepio nelle aule scolastiche per salvare la nostra identità religiosa? Non dovremmo guardare a questo fenomeno epocale con occhi nuovi?

Questa nostra società ha diffuso soprattutto fra i giovani l’idea di poter soddisfare tutto e subito e che la felicità consista nell’essere saziati, riempiti, colmati: perché non guardare con occhi resi nuovi dalla Resurrezione gli incontri conviviali tra familiari ed amici, dove si riempie non solo lo stomaco, ma anche l’animo perché si condividono dolori, gioie e speranze? Perché la gita di Pasquetta, occasione per spezzare assieme la stessa focaccia, bere buon vino, non può diventare momento anche per ravvivare lo spirito con la parola buona, la risata spassosa? E perché invece di infilarci tutti uno dietro all’altro in un’autostrada dove si procede a passo di lumaca, non si fa una bella camminata tra i parchi cittadini, i boschi delle nostre montagne o lungo un fiume: in questo modo, il divertimento diventerebbe alimento per lo spirito.

E perché invadere la nostra stanza, dove abita l’intimità, con internet che ubbidisce all’imperativo di evitarci la solitudine? Non ci accorgiamo che il bombardamento di notizie, di selfie cancellano la nostra singolarità e ci omologano, ci rendono tutti uguali e non possiamo più possedere la sapienza, che non è la capacità di conoscere, di essere informati, ma di comprendere col cuore?

L’occhio nuovo della Resurrezione ci indica gli idoli antichi da combattere che si rivestono di modernità: la perversione del rapporto con la realtà e con gli altri, il vuoto interiore che si tenta di colmare con banali conoscenze, il divertimento che ha connotati così sguaiati da rivelare più miseria che allegria, la pioggia di informazioni che non ci permette di meditare sugli avvenimenti.

L’acqua nuova con cui mia madre da fanciullo mi inumidiva gli occhi al suono del “Gloria” era per lei un augurio perché io, vivendo nella storia insieme agli altri uomini, sapessi guardare ad essa non per dominarla, ma per servirla, non per condannarla, ma per amarla.

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