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Il Mohicano

PRIGIONIERI DI SÉ STESSI

ROCCO CORDI' - 13/04/2018

salvinidimaioNel mio precedente articolo sostenevo “il voto del 4 marzo ci consegna due vincitori e tanti sconfitti, ma non è detto che i primi saranno in grado di assicurare un governo solido e credibile al Paese.”

Da allora è trascorso più di un mese e ancora del governo non si vede neppure l’ombra.

Per sbrogliare l’intricatissima matassa prodotta dall’esito del voto ì protagonisti principali dovrebbero disporsi ad una operazione verità o, come si sarebbe detto un tempo, compiere una severa autocritica sulle linee politiche seguite. Seguendo però le dichiarazioni e i commenti dell’uno e dell’altro è più facile immaginare le complicazioni che non le soluzioni.

L’impasse attuale dipende innanzitutto dal fatto che si è voluto far credere agli elettori qualcosa di inesistente come l’elezione diretta del premier o di impraticabile come la vittoria assoluta. Ognuno ha fatto la sua partita ignorando le regole del gioco. Regole pessime, fatte su misura per impedire la vittoria dell’altro e dunque obbligare alla “convivenza”. Il motivo di scandalo però non sta nel fatto che sia stata definita una regola che, salvo miracoli, prevede la possibilità di dar vita a governi di coalizione, ma nel fatto che quella regola è stata taciuta o occultata illudendo gli elettori di essere loro a decidere “il governo”.

Ora che però il trucco è svelato non è facile far digerire accordi di coalizione anche per la natura dei due vincitori.

Il Movimento Cinque Stelle è diventato sì primo partito, ma il suo 32,7% rappresenta un terzo dei votanti. Un consenso certamente enorme ma assolutamente insufficiente ad assicurare quella maggioranza parlamentare necessaria per formare un governo. Al di là dei numeri, che in democrazia dicono pure tanto, per i pentastellati c’è anche un problema politico di non poco conto. Il loro successo è stato costruito prevalentemente sul mito della “purezza”, del loro essere incontaminati rispetto ad una “casta” corrotta e corruttibile arroccata nei palazzi del potere e insensibile alla volontà del popolo. Una critica dura e per alcuni versi anche giustificata, ma l’idea di essere “solo contro tutti” per quanto affascinante sul piano simbolico e redditizia sul piano elettorale non altrettanto lo è politicamente. Il tormentone e lo stallo del dopo voto è li a dimostrarlo come meglio non si potrebbe.

L’altro vincitore, il leghista Salvini, ha qualche problema in più. In primo luogo perché la sua leadership nella coalizione di centrodestra nasce non da una condivisione vera ma dall’esito di una resa dei conti che ha segnato l’intera campagna elettorale. Nella contrapposizione a Berlusconi, (leader peraltro incandidabile e, tuttavia, paradossalmente, sempre protagonista di primo pano) Salvini ha vinto collocando la Lega al 17,4% contro il 14% di Forza Italia. Tale esito rende politicamente più debole o meno spendibile, il 37% ottenuto dalla coalizione di centrodestra. Anche qui se al dato numerico aggiungiamo le differenze politiche e in particolare i contrasti di fondo tra Lega e Forza Italia, è più facile comprendere le ragioni di uno stallo che non riguarda solo le stelle.

Salvini, per diventare alleato di Di Maio, dovrebbe rompere definitivamente con Berlusconi o conquistare Forza Italia. Impresa non facile e tuttavia già in atto.

Se questo è il quadro non è facile prevedere né i tempi, né la soluzione, del nodo governo. Il Presidente della Repubblica difficilmente riuscirà a sciogliere l’ingarbugliata matassa anche dopo il secondo giro di consultazioni previsto per questo fine settimana. Una cosa però appare già evidente. Vincitori e vinti sono prigionieri della trappola autoreferenziale da loro stessi costruita. Per uscire da essa bisognerebbe collocare al centro dello scontro e del confronto i problemi reali del Paese e riconoscere tutti, seppure tardivamente, che le regole della democrazia parlamentare sono valide e vanno rispettate, sempre. Bisognerebbe pure ammettere che le convergenze e le alleanze (così come le contrapposizioni) sono il sale della democrazia. Purché siano chiare e trasparenti le motivazioni che le supportano.

 

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