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Storia

IL “MISTERO” MORO

MANIGLIO BOTTI - 13/04/2018

La lettera di Aldo Moro alla famiglia

La lettera di Aldo Moro alla famiglia

Sono trascorsi quarant’anni dal rapimento a Roma in via Fani di Aldo Moro – 16 marzo 1978 –, da parte delle Brigate rosse, e del ritrovamento del suo cadavere – 9 maggio –, in via Caetani, dopo cinquantacinque giorni di prigionia.

Inevitabili le celebrazioni ufficiali delle ricorrenza com’è d’uso da sempre, ma specie negli anni che si susseguono di decade in decade. Sono stati pubblicati articoli di giornali, sono usciti libri (molti), sono state messe in programma trasmissioni televisive, presentando come ospiti personaggi più o meno protagonisti in quell’epoca, se n’è parlato – spesso in conseguenza degli stessi articoli, dei libri e delle trasmissioni tv – anche diffusamente sui social.

Una prima considerazione, dinanzi a queste varie manifestazioni o esibizioni, riguarda l’approccio alla storia, in questo caso, almeno per quanto riguarda chi scrive, alla “storia vissuta”. E la prima riflessione, a leggere e a sentire certi interventi, spesso pronunciati da persone che all’epoca erano ragazzi o nemmeno ancora nati, è di assoluto sconcerto. Nel senso che la storia non appare come la si ricorda – anche cercando di essere il più possibile obiettivi –, e ciò porta subito a pensare che la storia non è… storia, perché ognuno la vive a modo suo; e se soprattutto le testimonianze orali e scritte di anni vicini si confondono e si contraddicono, figurarsi poi se si tratta di periodi lontani. Qualcuno diceva che la storia diventa “fittizia” pure nel caso in cui – come dovrebbe essere – si basi su documenti o presunti tali.

Con queste premesse è possibile che anche la ricostruzione che qui seguirà appaia di parte o, in significati diversi parziale e limitata. La si prenda invece come un contributo sereno, uno sforzo per avvicinarsi a una filosoficamente sempre sfuggente verità.

Per quanto riguarda il rapimento e la fine di Aldo Moro, nonostante si continui a fare ricorso ai “misteri”, che magari (in parte ridotta a nostro avviso) possono ancora sussistere per certe cose non dette o dette a mezzo, chissà, si può affermare con (una buona) certezza che il presidente della Democrazia cristiana fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse per il comunismo, che i (presunti) responsabili del suo assassinio furono arrestati e condannati. Stop. La stessa “verità giudiziaria” com’è noto è relativa e non è la verità in assoluto, che poi forse manco esiste.

Passi per certe affermazioni di ambito storico generale – per esempio quella secondo cui Aldo Moro fosse una vittima della “spartizione di Yalta, come s’è letto sul Corriere della Sera a proposito della recensione di un libro del giornalista Marco Damilano, scritta da Ernesto Galli della Loggia –, che però oggi e allora sarebbero potute valere per qualsiasi importante altro personaggio, della Dc o no, che fosse stato rapito.

Più difficile dire, nonostante le circostanze, che Moro fu rapito e ucciso perché le Br volevano in qualche modo contrastare il “disegno politico” di Moro stesso, il quale mirava di portare lentamente il Pci al potere. Con la Dc. Sembrano piuttosto commenti e conclusioni successive, soggette a suggestioni, desiderate e pensate oggi più che realisticamente riferite all’epoca. Per una ragione molto semplice: tutti i brigatisti che in seguito furono catturati e processati per questo delitto (quasi tutti, ormai, secondo le leggi vigenti hanno scontato la loro pena a seconda delle diverse condizioni cui vi accedettero: pentiti o dissociati o irriducibili) hanno affermato che il rapimento di Moro fu casuale, nel senso che le Br avevano solo in mente di compiere un’azione eclatante nei confronti dello Stato. Tant’è che – così si disse – il personaggio democristiano che si sarebbe voluto rapire era Giulio Andreotti, il quale invece in quel marzo del ’78 avviava – con il tormentato consenso del Partito comunista – il suo quarto governo; la cosa (il sequestro di Andreotti) non andò a “buon fine”, dichiararono i brigatisti, perché meno fattibile.

Ogni ricostruzione ha poi smentito la compartecipazione – per non dire la conduzione – del sequestro da parte dei servizi segreti stranieri (al solito: Cia, Mossad, Kgb). Cioè: nessuno può escludere a priori che i servizi segreti stranieri, che rispondevano ai rispettivi Paesi, tenessero in qualche modo “sotto controllo” il terrorismo italiano, così come non si possono escludere “conoscenze” dentro i fatti di mafia o ‘ndrangheta. Altro però è dire che tali organizzazioni abbiamo per loro oscuri scopi etero-diretto il sequestro.

La questione della fermezza. Oggi passano analisi di lacerazioni e di uno sconquasso democristiani (qualcuno addirittura ha ipotizzato una “volontà” democristiana a non riaccogliere il proprio presidente). Si ricordano i tentativi del Psi volti alla trattativa, ma non s’è mai ben capito, neanche oggi, a che cosa essa volesse esattamente puntare. La politica della fermezza e della non trattativa con i terroristi, per altro, fu tenacemente e coraggiosamente sostenuta dal Pci, che invece ne avrebbe dovuto volere la liberazione… Ma lo stesso Moro, all’epoca del sequestro Sossi, quattro anni prima, s’era pronunciato per la fermezza.

L’appello di papa Paolo VI fu umile e umanitario: Uomini delle Brigate rosse, liberate l’amico Moro… Senza condizioni. E il clima era, diciamo così, “incerto”, che è un eufemismo: i giornali scrissero che nel momento del sequestro di Moro (e dell’uccisione dei cinque uomini della scorta) qualcuno aveva anche brindato.

Le condizioni poste dai terroristi, che si ricordi, erano la liberazione del loro prigioniero a fronte della scarcerazione di una dozzina di altri pericolosi terroristi già in carcere. V’è da domandarsi, se fosse accaduta una cosa del genere (anche la semplice liberazione di “qualche criminale”) , quale sarebbe stata la reazione degli italiani dinanzi a uno Stato che sacrificava e dimenticava cinque “povere” vittime. Gli uomini della scorta di Aldo Moro: l’autista appuntato Domenico Ricci, il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, che si trovava seduto a fianco dell’uomo politico su una “132” non blindata, e dietro di loro su un’Alfetta che seguiva i vicebrigadieri di Ps Raffaele Jozzino e Francesco Zizzi e la guardia Giulio Rivera. Il maresciallo Leonardi si piegò per proteggere Aldo Moro con il suo corpo, la sua pistola era nel borsello avvolta nel cellophane; i mitra stavano nel bagagliaio delle auto perché nessuno sapeva usarli. Operazione geometrica da commando? Anche. Più verosimilmente fu un tiro al piccione nei confronti di una scorta rilassata.

Le indagini furono convulse, confuse, raffazzonate, quasi penose. Come non ricordare – soltanto per fare due esempi – la spedizione sul lago della Duchessa, al confine tra Lazio e Abruzzo, nelle cui acque – che poi si rivelarono completamente ghiacciate – si sarebbe dovuto trovare il corpo di Moro? O le sedute spiritiche cui un futuro presidente del consiglio faceva ricorso per individuare il covo dei brigatisti e la prigione del presidente della Dc?

Le lettere. Durante la prigionia Aldo Moro spedì qualche decina di lettere (agli “amici” Dc e ai famigliari soprattutto) invocando la propria liberazione. Le lettere erano censurate preventivamente dalle Br, e le condizioni di Moro, prigioniero e terrorizzato, non erano tali da poter fare, nemmeno oggi, un’esegesi corretta. Ma purtroppo Moro, in tutte le sue lettere, non dedicò mai neppure una riga agli uomini che erano morti per lui. Diceva che il ritorno, la sua liberazione erano necessari per la famiglia, com’è ovvio; le sue dissertazione politiche – checché se ne dica – non erano chiarissime; riguardo il suo partito (il suo “ex” partito, perché sosteneva che se fosse stato liberato avrebbe aderito al gruppo misto) apparvero in un certo qual modo ricattatorie.

Disse la moglie di Moro, Eleonora, ai giudici, durante il processo ai terroristi catturati e accusati d’essere stati responsabili del sequestro: “Tutto in quelle lettere apparteneva a mio marito. Il contenuto, il pensiero, il modo di parlare e di esprimersi, la sua logica… Quelle lettere esprimevano il suo modo di vedere le cose, di valutarle”.

Con il che – ha scritto Indro Montanelli nella sua Storia – la signora Moro aveva reso sicuramente un servizio alla verità, ma non alla memoria del marito.

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