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Storia

PROCESSO AL NAZISTA SESSANTOTTO ANNI DOPO

FRANCO GIANNANTONI - 10/03/2012

 Il prossimo 15 maggio, a sessantotto anni da quel tragico 13 agosto 1944 quando un plotone di militari tedeschi, per rappresaglia, dopo il ferimento di quattro soldati del Reich in un scontro coi partigiani, fucilò nella piazza principale di Borgo Ticino davanti alla popolazione costretta ad assistere alla tragedia, dodici giovani civili rastrellati al Dopolavoro dov’era in corso una gara di bocce, il Tribunale Militare di Verona (Seconda Sezione) darà il via al processo penale. Non sarà una mera formalità ma un passo decisivo per la giustizia, ignorata colpevolmente per responsabilità tutta italiana da molti decenni. Il solo imputato ancora in vita di quell’eccidio, l’ex sottotenente di vascello Ernst Wadenpfuhl, oggi novantasettenne, componente dell’80° Reparto d’Assalto della Marina tedesca, sarà contumace. Chissà se qualcuno gli ricorderà quell’assassinio e se un palpito di orrore e di pentimento ne scuoterà mai la coscienza.

Tutti gli altri imputati, a cominciare dal famigerato capitano Krumar, artefice del massacro, sono scomparsi. I parenti delle vittime, unitamente ai Comuni di Sesto Calende e Borgo Ticino e alla presidenza nazionale dell’ANPI, costituitisi parte civile, saranno assistiti dagli avvocati Andrea Speranzoni e Roberto Nasci (Studio Giuseppe Giampaolo) del Foro di Bologna. Rappresenterà l’accusa il Procuratore Militare dottor Bruni, già pubblico accusatore nel processo per la strage di Marzabotto.

“Non vogliamo né vendetta né denaro ma solo giustizia e verità”, hanno commentato alla notizia della fissazione dell’udienza, inseguita per una vita con la costante celebrazione del ricordo e i pressanti appelli alle autorità giudiziarie, Giovanna e Maddalena Gazzetta di Sesto Calende, nipoti di Giovanni Fanchini, ventisei anni, una delle giovani vittime.

La cittadina sul fiume Ticino rappresentava lo snodo centrale della lotta di Resistenza e la Savoia Marchetti, la fabbrica aeronautica, la maggiore fucina partigiana. Da lì uscivano i coraggiosi che si battevano in pianura e nelle vicine Val d’Ossola e Valsesia nelle formazioni “Garibaldi”, “Valtoce”, “Mario Flaim”, “Beltrami”, “Alto Milanese”, “Servadei”.

Le altre vittime erano più o meno della stessa età del povero Fanchini: Virgilio Tognoli , ventotto anni, come Olimpio Parachini; Benito Pizzamiglio, Alberto Lucchetta e Rinaldo Gattoni, vrntidue anni; Francesco Tosi, il più anziano, trent’anni; Nicola Narciso e Luigi Ciceri, ventitre anni; Andes Silvestri, ventinove anni; Franco Cerutti e Giuseppe Meringi, i più giovani, diciotto e diciannove anni. Un tredicesimo, Mario Piola, aggiunto per “compensare” il peso del quarto militare germanico ferito gravemente, si salvò per puro miracolo.

La strage ebbe tempi rapidissimi: a mezzogiorno del 13 agosto 1944 un interprete tedesco giunto sul camion che portava i feriti, avvisò la popolazione di radunarsi in piazza, comunicando che il Comando supremo per il ferimento dei quattro militari tedeschi a San Michele, un rione di Borgo Ticino, avrebbe preso dei severi provvedimenti. Alle 14 l’arrivo dell’unità di Krumar di stanza sul lago Maggiore, appoggiata da marò della X Mas di Ongarillo Ungarelli, uno degli ufficiali di Junio Valerio Borghese, impresse la svolta decisiva all’azione: dopo aver chiesto una somma di trecentomila lire come garanzia della vita dei possibili fucilandi (somma raccolta e consegnata ai boia nazisti), iniziò la razzia casa per casa, una serie di incendi, furti, la scelta fra gli uomini sotto i trent’anni di coloro che non fossero in regola coi documenti. Fra i fermati finirono anche dei giovani regolarmente iscritti al fascio repubblicano, un paio furono liberati dall’intervento della Decima Mas, uno finì al muro. Un fatto gravissimo che provocò giorni dopo la dura reazione del Capo della Provincia di Varese Enzo Savorgnan di Brazzà (il fucilatore a Reggio Emilia dei fratelli Cervi) presso i superiori, ammonendo che fatti del genere avrebbero accresciuto il discredito popolare del regime di Salò. Non ce n’era bisogno. Eseguita la rappresaglia, portate a compimento altre violenze, i corpi dei caduti erano stati abbandonati per un giorno sulla nuda terra, inavvicinabili dai familiari. Una bimba di sei anni, Piera, non aveva retto allo spettacolo ferale, ed era morta.

Quella che è passata alla storia come la “strage di Borgo Ticino”, fra le più atroci accadute nel nostro Paese nei seicento giorni della RSI, fa parte di uno dei tanti processi a suo tempo istruiti e poi inopinatamente infilati nel cosiddetto “Armadio della vergogna” dal Procuratore Generale Militare di Roma Enrico Santacroce che nel 1960, per “ragion di Stato”, aveva deciso, in accordo col potere politico di “archiviare provvisoriamente” (istituto giuridico non previsto dal nostro codice di procedura penale) tutti i delitti compiuti dalle forze armate del Reich sul territorio italiano. Una decisione clamorosa maturata, sin dal 1956, in base agli accordi intercorsi fra i ministri della Difesa e degli Esteri Emilio Taviani (DC) e Gaetano Martino (PLI) per non “indebolire” la credibilità del rinascente esercito della Germania Federale in funzione antisovietica. Nessun processo ai tedeschi né a quelli di Marzabotto né a quelli di Cefalonia. Né ad altri. Una coltre di omertà doveva ricoprire il sangue dei martiri. L’Italia centrista, mezza bianca e mezza atlantica, mentre sbandierava la “bestia comunista” impediva che la verità di chi era caduto per la Patria fosse risarcito!

Morale: tutto quello che la magistratura italiana, “a caldo” , subito dopo la guerra (1945-1950), era riuscita a mettere a fuoco con indagini supportate anche dalle autorità di polizia anglo-americane (molti criminali di guerra erano infatti detenuti nei campi di prigionia alleati in Italia e all’estero) era stato accantonato e solo nel 1994, casualmente, durante una ricerca coordinata dal Procuratore Militare Antonino Infelisano per il processo contro il capitano Priebke, il killer delle Fosse Ardeatine, vennero ritrovati in un armadio con le antine rivolte contro il muro a Palazzo Cesi ben seicentonovantacinque fascicoli processuali che riguardavano i massacri compiuti durante la guerra dagli occupanti hitleriani.

Uno scandalo che, dopo alte grida e il capo cosparso di cenere, come capita spesso in Italia, durò poco. Il silenzio lentamente ricoprì tutto mentre la Procura Generale Militare, non più sottoposta al potere dell’esecutivo come al tempo del Procuratore Santacroce, provvide, non senza fatica, a sistemare i vari fascicoli, distribuendoli per competenza alle varie Procure territoriali peraltro poche seppur fornite di straordinari magistrati (il dottor Paolo Rivello di Torino, per citare un nome). Purtroppo quasi tutti i responsabili delle stragi erano nel frattempo deceduti o erano in tarda età, alcuni irreperibili, altri al sicuro nei paradisi sud-americani raggiunti a suo tempo con la connivenza di amici potenti, anche prelati di alto rango, come nel caso di Bormann e di Mengele. Il punto era che, se processati allora, i criminali erano giovani uomini, ben individuati, colpiti da prove inoppugnabili ma soprattutto in molti casi detenuti nei campi di raccolta per prigionieri, italiani e alleati.

Qualcuno anni fa, dopo la scoperta romana, fu processato e condannato all’ergastolo: Misha Seifert, il boia ucraino del campo di smistamento di polizia di Bolzano-Gries, scoperto in Canada ed estradato e Thedor Saevecke, il famigerato capo della Gestapo dell’Hotel Regina di Milano, responsabile della fucilazione dei quindici ostaggi a piazzale Loreto a Milano. Diverso il destino per altri massacri. Karl Frederich Titho e Hans Haage, comandanti dei campi di smistamento di polizia di Fossoli-Carpi e di Bolzano-Gries, ad esempio, morirono tranquillamente a casa loro in Germania, mai disturbati dalla giustizia tedesca. Così il “boia di Caiazzo” (Caserta), il tenente Wolfgang Emden, condannato all’ergastolo a Santa Maria Capua a Vetere per la fucilazione di quindici contadini e prescritto a Bonn.

Ora la pagina atroce di Borgo Ticino. Il processo ha solo un significato, quello storiografico. È quello che sostiene a nome della collettività l’ingegner Francesco Gallo, sindaco di Borgo Ticino: “il processo è un atto doveroso di giustizia verso le vittime, i loro familiari, tutti i cittadini colpiti dagli incendi, dai saccheggi, dalla violenza immotivata ed improvvisa. La ricerca della verità è un dovere morale e un atto di fiducia nella democrazia e nel futuro”.

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