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Editoriale

SVALUTATION

MASSIMO LODI - 20/04/2018

renzidimaioSvalutation per svalutation, forse non era neppure così campata in aria la proposta di Celentano: caro Renzi, vai da Di Maio e guarite insieme l’Italia. Medicina forse/certo inadeguata a un morbo che pare inguaribile, quello che infetta il Paese al punto tale da impedirgli d’avere una legislatura che sia tale, riformatrice e durevole. Ma medicina non così diversa, nella sua presunta inefficacia, dalle altre che vengono studiate/proposte da luminari del settore. Della politica, vogliamo dire, e non delle canzonette.

Di Maio vuole allearsi con Salvini, ma senza i voti di Berlusconi. Con i quali, e solo con essi, Salvini può tuttavia trattare l’interlocutore grillino proponendosi a leader del centrodestra. Peraltro Berlusconi rifiuta di parlare d’intese con Di Maio, giudicandolo al massimo capace “…di pulire i cessi”. E Salvini, da parte sua, ben si guarda dall’aprirsi a ipotesi alternative: guai a paventargli quell’accordo col Pd che sarebbe invece gradito a Berlusconi. Né il Pd si sottrae alla battaglia dei veti: pur fra qualche crepa che ne riga le correnti, sinora sembra deciso a non concedere la sua partnership a nessuno.

Eravamo dunque e siamo alla paralisi. Cinquanta giorni di chiacchiere inutili, pur se ciascuna contrabbandata alla voce “senso della responsabilità”. Alla fine Mattarella ha dovuto ripiegare sulla strategia esploratrice, di vecchia memoria democristiana: incarico alla presidente del Senato e vedesse lei di presentargli qualche novità, fatto il consueto giro delle consultazioni. Ma la novità non poteva che essere una non novità: impossibile sciogliere nodi incrostati/induriti da inscalfibili interessi di parte. Nessuno è disposto a far passi di lato o indietro, e la trattativa non va avanti.

Quali le soluzioni praticabili, nel caso in cui mutasse, nel prossimo futuro, qualche opinione? O un governo del presidente, con la partecipazione di quanti sono necessari a garantirgli i numeri in Parlamento, ciò che imporrebbe un mutamento d’indirizzo da parte di Cinquestelle e Lega, o di uno solo dei due partiti, scenario finora negato/respinto con sdegno. O un governo Cinquestelle-Pd con l’aggiunta di quel manipolo di “facilitatori” che a Montecitorio e a Palazzo Madama con mancano mai: coloro che, pur di non perdere seggio e prebende, sono disposti a schierarsi a sostegno di chi avevano aspramente combattuto durante la campagna elettorale.

Di sicuro c’è solo che: 1) non si tornerà a votare in tempi brevi, perché il Quirinale lo esclude, a causa d’impegni internazionali ed economici dai quali è attesa l’Italia; 2) non si finisce di rimpiangere l’occasione di riformare la Costituzione e di varare una legge elettorale di segno maggioritario bocciata alla fine del 2016. Oggi non avremmo più Senato, Province, Cnel e pastoie varie che bloccano l’ingranaggio istituzionale. Avremmo invece un vincitore delle elezioni che governa con solidi numeri per cinque anni, sperando d’essere riconfermato maggioranza dagli elettori al successivo cimento delle urne o preparandosi a lasciare il posto a un’opposizione cui sarebbe garantita la chance dell’avvicendamento. Troppo semplice per una nazione complicata.

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